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Queste parole fanno male perché denotano una lettura superficiale e una conoscenza approssimativa del pur faticoso forse a tratti lento ma in ogni caso ininterrotto cammino che proprio la Chiesa ha compiuto dal secondo dopoguerra a oggi, nella comprensione e nella trattazione del fenomeno mafioso e di cui proprio don Puglisi e, con lui tante altre figure di sacerdoti, sono testimonianza viva. Un conto è parlare di ritardi, che pure ci sono stati, un altro è farli passare per immobilismo, silenzi, omissioni e talvolta larvata connivenza. La Calabria e in genere il meridione è terra segnata dalla crisi economica, dalle deficienze della classe dirigente, dalle dimenticanze dei governi di ogni livello, a volte dall’ incapacità della politica. Non per questo riteniamo che l’ errore di qualcuno possa tradursi affrettatamente e strumentalmente, in errore di tutti.
Evidentemente il dottor Roberti non sa della Lettera pastorale del 1948 dei vescovi meridionali, cui seguì il 30 novembre 1975 una lettera dei Vescovi calabresi dal titolo “L’ episcopato Calabro contro la mafia, disonorante piaga della società”. Così come hanno ricordato recentemente i vescovi della Calabria nella Nota pastorale sulla “ndrangheta” significativamente intitolata Testimoniare la verità del vangelo.
“Non sono mancate irresponsabili connivenze di pochi, nonché silenzi omertosi: e di questo i credenti sanno e vogliono chiedere perdono. Ma accanto alla gramigna, silenziosamente cresce il campo del bene che si distingue, senza mezzi termini, per la sua luminosità e la sua coerenza. Un campo seminato dal lavoro capillare e feriale di pastori e di laici che, nella predicazione, nelle catechesi, nell’impegno sociale, hanno dissodato e coltivato il terreno perché cresca il buon grano. Nell’ultimo ventennio, c’è stato, un fiorire di iniziative ecclesiali, associative, culturali, che hanno recepito e tradotto le istanze evangeliche di liberazione della terra calabrese”.
Noi crediamo che per sconfiggere il male ciascuno deve fare il proprio dovere, fino in fondo. Siamo convinti che alla Chiesa si debba chiedere di essere Chiesa, nello spirito e nell’insegnamento del Vangelo e non altro. Ce lo insegna il Beato Puglisi, figura straordinariamente semplice che combatteva le cosche da prete: innanzitutto con la coerenza della vita e poi amministrando i sacramenti, strappando i giovani alla strada, spingendo e stimolando le istituzioni ad essere presenti, sempre e comunque. Cosa che fanno silenziosamente, ogni giorno, tanti sacerdoti e laici nelle parrocchie che in alcuni casi sono l’unico presidio sociale nel territorio.
Per questo siamo altrettanto certi che lo Stato e le sue articolazioni debbano fare quello che il martire chiedeva. E siamo anche convinti che si possa riuscire, ciascuno nel proprio ambito, ma in unità di intenti, a debellare la piaga mafiosa senza più incertezze né tentennamenti: su questo aspetto papa Francesco, sulla scia sia di Giovanni Paolo II nella Valle Templi ad Agrigento (1993) sia di papa Benedetto a Lamezia (2011), il 21 giugno 2014 a Sibari e il 21 febbraio scorso a Roma è stato chiaro, fermo, forte.
E’ sulla strada indicata dal Santo Padre che camminano le Chiese del Sud sia pure con i loro guai terreni, forse non sempre con la speditezza necessaria, magari in qualche caso zoppicando, ma convinte, senza riserve né sconti per nessuno. Certo, molto resta da fare. Il cammino verso il futuro, sia chiaro, è irreversibile! Anche sul piano pratico con le azioni per liberare la religiosità popolare dalle mire e dalle infiltrazioni delle mafie e con la costituzione di un corso di formazione per i seminaristi, preti del domani.
Non aver considerato tutto ciò e tanto altro, lascia l’amaro nei cuori e non fa di certo progredire l’unità di intenti tra tutte le istituzioni e la Chiesa.