Per i Nazaretani il problema che quasi trasforma in tragedia la visita del loro concittadino è legato alla sua identità. ‘È uno di noi!’. Questa comune constatazione può rivelare un duplice sentimento: la fatica di accettare che il Messia sia il figlio di uno come me… allora perché non mio figlio?; la pretesa che faccia anche a Nazaret i miracoli compiuti a Cafarnao. Gesù nel suo intervento legge soprattutto dentro quest’ultimo sentire dei compaesani, i quali non comprendono che «le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» chiedono la medesima risposta gratuita con cui sono state pronunciate. La logica dell’amore, infatti, non può essere altra che quella del riconoscimento gioioso del suo darsi generoso e imprevedibile; chi pensa di dire all’amore perché si sia manifestato in un modo e non in un altro, in una persona e non in un’altra, sta oltraggiando l’amore! Gesù sa bene che il miraggio si è spezzato, che basta poco perché la situazione precipiti, ma non rinuncia a dire la verità per riportare ognuno al vero volto del Padre. Il maestro cita e spiega un proverbio che doveva essere noto agli ascoltatori: «Medico, cura te stesso». Sarebbe un’aspettativa naturale desiderare che la terra natia goda dei privilegi dovuti all’opera di un suo figlio. Se tale logica può essere comprensibile – ma non necessariamente accettabile – dentro un qualsiasi contesto sociale, nell’ambito della fede non è così. Anzitutto la salvezza non è un beneficio cui si accede per meriti etnici o religiosi, ma un dono che richiede una particolare condizione per poter essere ricevuto. La condizione è in certo modo quella della ‘estraneità’, non della parentela carnale; difatti in 8, 21 Gesù dirà: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». Chi si sente estraneo e non meritevole della Parola, è pronto ad ascoltarla con maggior purezza di chi forse la maneggia ogni giorno e per questo rischia di manipolarla. A tal proposito, Gesù cita due episodi biblici in cui due stranieri accolgono l’uomo di Dio, una vedova a Sarèpta e Naamàn il Siro. La sorte del profeta è quella di non essere «bene accetto nella sua patria» e Cristo è consapevole di questa sua vocazione. Seguendo la tipologia veterotestamentaria, infatti, il rifiuto da parte del popolo, che segue il riconoscimento, non rappresenta un ostacolo, ma una conferma per discernere tra vero e falso profeta. Se è vero che Elia ed Eliseo, qui evocati, non furono uccisi, essi conobbero comunque la persecuzione. Gli episodi successivi del vangelo, dal capitolo 5 al 9, contengono allusioni alla storia dei due profeti, basti pensare a Gesù nel deserto, la chiamata dei primi discepoli, le guarigioni di lebbrosi e ciechi, la moltiplicazione dei pani, la risurrezione di morti, l’incontro con Dio sulla montagna e il fuoco celeste. Per mezzo dei segni compiuti, dunque, Gesù in persona favorisce il suo riconoscimento come autentico profeta, mentre fino all’episodio di Nazaret era il narratore a caratterizzarlo come tale. Nella seconda sezione del suo ministero itinerante, dal capitolo 9 al 19, annunciando la morte violenta, Cristo dimostra la piena accettazione della sorte dei profeti. È con la passione che il rigetto diventerà effettivo ma, presentandolo come profeta lungo tutto il vangelo, Luca supererà l’obiezione posta dalle autorità giudaiche che la morte in croce per blasfemia, prova a loro dire dell’abbandono di Dio, smentisse la sua pretesa di esserne l’inviato. Marco e Matteo, grazie alla tipologia profetica, sono riusciti a proporre una lettura coerente della passione e morte; Luca ha esteso questa tipologia a tutto il ministero di Gesù. Cristo, condotto sul ciglio del monte, innalzato come quando venne tentato dal diavolo e come lo sarà un giorno sulla croce, anche questa volta non si lascia fermare dai poteri occulti e scivola via, lambendo i mantelli deli concittadini, lasciando un segno del suo passaggio «in mezzo a loro». Un Dio che si serve anche del rifiuto per toccare il cuore degli uomini!