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Gesù ci mette in guardia da chi «dice ma non fa»

Nel Vangelo di questa domenica Gesù consegna indicazioni fondamenti per chi sceglie liberamente di seguirlo e diventare suo discepolo. Stavolta non si rivolge direttamente agli scribi e ai farisei, ma ancora parla di loro attaccandoli dichiaratamente. Questo suo schierarsi contro non è tanto per il gusto di fare la guerra a qualcuno, né per abolire o screditare la Legge di Mosè, ma per portarla a compimento (cfr. Mt 17,20). Già da una prima lettura del brano ci accorgiamo che il nuovo Maestro intende parlare di umiltà e di credibilità, esprimendo la sua inequivocabile condanna a tutto ciò che sa di falsità, doppiezza, ipocrisia. Mi sembra molto significativo che Egli riconosca il ruolo degli scribi e dei farisei, quasi proclamandone la legittimità: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei: praticate e osservate tutto ciò che vi dicono», ma subito dopo aggiunge: «Ma non agite secondo le loro opere perché dicono e non fanno». Il problema allora non è la legge di Mosè o i dettami per il popolo d’Israele, quanto la falsità, la doppiezza, l’ipocrisia che contraddistingueva coloro che per primi dovevano viverli e osservarli. Il primo consiglio, che serve ad ogni cristiano, anche se non direttamente impegnato in un ruolo di autorità o responsabilità, è non cadere mai nella trappola del «dire e non fare». Una tentazione accovacciata alla porta di tutti. Papa Francesco dà una bella lezione sul vero senso dell’autorità, da esercitare comunque e sempre, anche nella Chiesa: «L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso… è un aiuto, ma se esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità». Questo concetto è espresso dall’etimologia del termine stesso: già il greco exousia richiama non l’oppressione, ma la possibilità di far riuscire qualche cosa: lo stesso il latino auctoritas indica la facoltà di far accrescere (augure) il bene, il positivo, ma per Gesù la condizione è vivere in prima persona quello che si richiede agli altri, ossia coerenza e credibilità. Sono questi due termini sui quali si gioca il futuro del nostro essere cristiani. Guai a noi, che dovremmo essere i primi testimoni della legge dell’amore di Gesù, a legare fardelli pesanti e difficili da portare, ponendoli sulle spalle della gente, se poi noi per primi non siamo disposti a muoverli neanche con un dito (cfr. v. 4). Una frase per tutti può aiutare i discepoli di Cristo a vivere oggi in pienezza la loro vera identità, che non può non essere sempre più coerente e credibile: «È meglio essere cristiani senza dirlo, che dirsi cristiani e poi non esserlo» (Sant’Ignazio). Gesù ci mette in guardia poi da diverse tentazioni, come il protagonismo: «Tutte le opere le fanno per essere ammirati dalla gente»; la mania di grandezza: «Allargano i loro filatteri e allungano le lor frange»; il carrierismo: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze»; la superbia: «Essere chiamati rabbi dalla gente». Su quest’ultimo aspetto Egli insiste di non chiamare nessuno maestro, padre o guida, attribuendo questi attributi solo a Gesù, l’unico meritevole di essere chiamato con questi termini. A mio modesto avviso il problema non è tanto del titolo, ma del modo in cui si vive la responsabilità che da esso deriva, poiché non ci può essere maestro senza alunni, padre senza figli, guida senza discepoli. Credo che chi si sente chiamare con questi importanti e impegnativi appellativi dovrebbe avvertire come un balzo interiore e chiedersi: «Ma io sono veramente quello che mi si dice? Sono per questa persona un maestro per il mio esempio, un padre per il mio amore, una guida per la mia autenticità?». L’ultima frase, sull’impegno a vivere in pienezza lo spirito di servizio e l’umiltà, non lascia scampo a equivoci o fraintendimenti, ma anche questo sarà possibile se sapremo tenere sotto gli occhi e nel cuore l’esempio e lo stile di Gesù, Maestro e Signore, che «non è venuto per essere servito ma per servire» e insegnò l’umiltà «spogliando sé stesso e assumendo la condizione di servo». «La Vergine Maria, ‘umile e alta più che creatura’, ci aiuti a rifuggire dall’orgoglio e dalla vanità, ad essere miti e docili all’amore che viene da Dio, per il servizio dei nostri fratelli e per la loro gioia, che sarà anche la nostra» (Francesco).