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Essere discepoli: non accontentarsi dell’anonimato

Gesù con i discepoli

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La tentazione del lettore, infatti, leggendo Mc 6,30-34 è di identificarsi con la folla anonima che cerca Gesù e ne suscita la compassione. In realtà la pericope stessa si pone in continuità con Mc 6,7-13 in cui Gesù ha inviato i suoi discepoli in missione, descrivendo il loro ritorno, l’evangelista ci aiuta a capire la funzione stessa della missione e dell’apostolato. Nel discepolato evangelico il Maestro non resta alle spalle nemmeno quando manda avanti, continua a essere il punto di riferimento da cui tutto parte e cui tutto tende, è la fonte della missione ma anche la meta. Si spiega così il verbo “si raccolsero”, “si radunarono” verso Gesù, come se il loro convergere non fosse trasmesso da una motivazione soggettiva e individuale, ma da chi li aveva inviati, indicando nello stesso invio il ritorno. Tornano da Gesù per riferire quello che hanno fatto e insegnato, la loro missione non finisce nel momento in cui incontrano la folla, ma trova compimento e nuovo inizio nel momento in cui viene raccontata a Gesù. Quando si parla di chiesa in uscita, si dovrebbe fare attenzione, poiché uscire non significa restare ma saper ritornare portando a Gesù per uscire di nuovo insieme. Odorare del profumo di Cristo in mezzo al gregge e puzzare di pecora davanti a Gesù.
Le parole di Gesù, uniche in tutta la breve pericope, vanno lette in stretta connessione con il commento che il narratore mette accanto, insieme ci vogliono indicare quanto è importante per la missione il ritorno dal Maestro. Nelle parole di Gesù c’è l’invito ad andare con lui (venite), lasciando la folla (in disparte), in un luogo di ricerca e comunione con Dio (in un luogo deserto) per riposare, nel commento dell’evangelista il luogo diventa un tempo, quello che il Maestro propone ai discepoli è di cambiare lo spazio per prendersi il tempo di fare qualcosa, di prendersi tempo per “mangiare”, poiché molte persone vanno e vengono. Risuona qui il versetto del salmo che ci ricorda che solo il pastore conduce su pascoli erbosi per far riposare (mangiare). Il testo evangelico stesso ci invita a cogliere il legame che esiste tra mangiare e andare in disparte e in un luogo solitario con Gesù, nello stesso tempo ci stimola continuare la lettura del vangelo per capire meglio “questo tempo opportuno per mangiare” riferito ai discepoli.
Il narratore si limita a raccontare quello che succede e così facendo interrompe l’azione di Gesù attraverso il verbo vedere, i molti vedendo capiscono e seguono Gesù e i suoi discepoli, è vedendo la folla Gesù corregge e amplifica la sua intenzione. Marco ci racconta di un Gesù che può prendere un’iniziativa che non riesce, questo fallimento diventa occasione di rivelazione, ci costringe a guardare le cose dal punto di vista di Gesù, Egli non fugge, guarda e assume ciò che vede, “è preso alle viscere”. Questo verbo unico, nelle scritture è usato quasi esclusivamente per Dio e rende il suo sentimento materno di compassione davanti a chi è vittima della storia, esprime qui tutta la missione di Gesù.
L’espressione “Come pecore senza pastore” è fortemente biblica, la Scrittura la riporta per la prima volta in Nm 27,17, è il momento in cui viene menzionato il successore di Mosè, colui che in greco porta il nome di “Iesoun”. La domanda dell’identità di Gesù che attraversa il vangelo di Marco, qui riceve indirettamente una risposta, Gesù entra in scena, vede la folla, prova compassione e compie cosi l’attesa di cui si parla nelle profezie. Questo sarà il nome con cui lo chiameranno “Signore-nostra-misericordia”, perché, come ci ricorda il salmo, è venuto per condurci a trovare il tempo opportuno per mangiare (riposare) su pascoli erbosi.