Riguardo al primo impegno, Papa Francesco ce lo ripete continuamente: la Chiesa non può non vivere la sinodalità, non tanto per inseguire nuove strategie pastorali, quando per essere fedeli al dettato evangelico. È lo stile di comunione voluto dal Concilio Vaticano II tanto decantato ma così difficilmente applicato, in quanto incapaci di superare il forte individualismo, che ci porta ad agire da battitori liberi, sempre più convinti che “chi fa per sé fa per tre”. Eppure Gesù per primo ci ha insegnato ad adottare, per usare un’espressione moderna, lo stile di lavoro di equipe, dimostrandoci che non si può evangelizzare efficacemente da soli, ma è necessario il contributo di idee e di azione dei fratelli e delle sorelle, anche loro chiamati come me a lavorare nella vigna del Signore. Eppure che fatica facciamo a realizzare una Chiesa gioiosamente in cammino, non ferma e arroccata nelle sue posizioni, ma sempre alla ricerca di tutto ciò che è vero, buono e giusto, pronta a scendere in strada, uscendo dalle proprie sacrestie e palazzi, dove per troppo tempo ha trascurato la sua indole missionaria e quindi sinodale, una chiesa in uscita verso le periferie esistenziali del mondo, per portare Il Vangelo della gioia.
Ma non possiamo negare che come nella scena di Emmaus i discepoli di Cristo appaiono non poche volte poco impegnati, decisi, gioiosi. Delusione e tristezza gli atteggiamenti di fondo dei discepoli di ieri, ma anche di molti membri della Chiesa di oggi. Tali sentimenti sono senza dubbio alimentati dall’incapacità di riconoscere la presenza del Signore Risorto nella nostra vita di ogni giorno. I nostri occhi sono incapaci di vedere il suo volto, di avvertire il suo essere accanto, compagno di strada, pellegrino per le strade della nostra quotidianità. Il vangelo di oggi ci dice che i discepoli riscopriranno tale presenza fondamentalmente in due segni: nelle Scritture e nello spezzare il pane. “Non ci ardeva il cuore nel petto quando ci spiegava le Scritture?”, si chiedono i due di Emmaus. La Parola del Signore è sempre la stessa, “ieri, oggi e sempre”, dipende da noi riaccendere questo ardore nel petto, questo fuoco vivo che non può non bruciare dentro chi dice di credere e di amare Cristo. E poi la “fratio panis”, così come agli albori della Chiesa nascente fu chiamata la messa, che certamente deve farci avvertire e gustare il profumo e la fragranza percepita da chi spezza il pane “con letizia e semplicità di cuore”.
Quel tanto inaspettato quanto felice incontro sulla via di Emmaus provocherà nei cuori dei discepoli due atteggiamenti determinati per la loro vita: la preghiera e la missione. Gesù fa come se volesse continuare il cammino per conto suo, suscitando una delle preghiere più belle tramessaci dai Vangeli: “Resta con noi Signore”, una preghiera che non ci dovremmo stancare mai di ripetere in ogni circostanza della vita, perché non c’è momento in cui non abbiamo bisogno della sua presenza e della sua forza. E poi la missione: “tornarono senza indugio” da Emmaus a Gerusalemme per dare a tutti l’annuncio del Signore risorto. La conclusione è la realizzazione di un vero miracolo, l’attuazione di una vera Pasqua, che permette loro di passare dalla tristezza alla gioia, dalla delusione alla speranza, non più tristi ma felici, non più delusi ma pieni di fiducia, in cammino non più per le strade polverose della Galilea, ma per le vie del mondo, pronti ad andare incontro a ogni uomo di ogni razza, lingua e nazionalità. Nasce la Chiesa, che mi piace presentare con le parole di un canto noto ai nostri giovani, che richiama proprio il racconto di Emmaus: “Chi potrà tacere da ora in poi che sei Tu in cammino con noi, che la morte è vinta per sempre, che ci hai ridonato la vita”. Sia sempre così la Chiesa: piena di luce, di gioia e di pace, pellegrina per il mondo, felicemente in cammino insieme ai fratelli, verso il Regno dei cieli.
Monsignor Giacomo D’Anna