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Una premessa: credo non sia difficile trovarci d’accordo nel deprecare la situazione socio politica attuale che sta alla base dei persistenti e consistenti sbarchi, soprattutto sulle coste italiane dall’altra sponda del Mediterraneo: disordini sociali e bande di movimenti fondamentalisti che rendono ingovernabili tante nazioni, dove si vive sotto l’incubo dell’intolleranza e della violenza; feroci persecuzioni per motivi o piuttosto per pretesti ideologici ed anche religiosi; pessima gestione della cosa pubblica e sperequazioni intollerabili che portano intere popolazioni ai limiti della fame e della disperazione; e aggiungi quella rete di mafie nazionali e internazionali, che ha le sue ultime propaggini negli scafisti, capaci di illudere la gente con un cumulo di promesse e sogni d’oro, sfruttandola fino all’ultima goccia di sangue. Tutto questo ed altro lo deprechiamo e lo gridiamo a voce alta, puntando il dito d’accusa su chi, parlo soprattutto a livello di Unione Europea, sta a guardare con indifferenza o curiosità, scaricando sempre su altri le responsabilità. Peccato che questa protesta non si fa corale, potente e prepotente fino a condizionare le alte politiche e costringerle a cambiare corso.
Su tutto, torno a dire, possiamo trovarci d’accordo. Ma sta il fatto che i barconi, conosciuti ormai come le carrette del mare, partono e talora raggiungono le nostre coste o almeno le nostre acque territoriali; tal’altra, anzi nel più dei casi, vanno allo sbando, imbarcano acqua, viene lanciato un allarme e questa massa di gente affamata e assiderata viene portata in salvo da un mercantile o da una nave della marina militare. Ci domandiamo: che fare di questa gente? Lasciamola naufragare nel nostro mare o languire fino all’agonia sulle nostre spiagge?
Diamo atto che l’Italia, debole forse verso l’Europa e gli organismi internazionali, finora ha fatto scattare un meccanismo di intervento, in parte scoordinato o improvvisato, comunque impari, non adeguato all’emergenza. Comunque è scattato e continua a scattare, ma l’emergenza è di tali proporzioni e a gettito così continuo, che ogni maggiore sforzo delle strutture pubbliche è risultato finora carente, lasciando inevase tantissime richieste di soccorso. E’ proprio per tal motivo che è nato nel settembre scorso il “Coordinamento Ecclesiale di Pronto Intervento”; non affatto per sostituirsi a chi di dovere, ossia per fare sistematica opera di supplenza ma in supporto e integrazione di quanto spetta all’Ente pubblico e in collaborazione col medesimo.
Qualcuno può dire, anzi molti di fatto già dicono con parole più o meno esplicite: perché tanto affannarsi? non è dare una mano a un sistema perverso? porsi come ultimo anello di una catena di criminalità? incoraggiare chi sta ancora sull’altra sponda a tentare il salto, perché un qualche angelo custode è lì pronto ad accogliere? E così via.
Che cosa rispondere? Forse potrebbe essere più efficace un sorriso che una risposta; o invitare l’amico che pensa o parla così a fare un sopralluogo con noi in queste centrali della sofferenza. Queste parlano prima al cuore che al cervello. Non si tratta di buonismo, ma di umanità e civiltà, per chi non osasse parlare di carità cristiana. Alternativa è un degrado di cultura e di civiltà di cui nessuno vorrebbe fregiarsi.
Dunque pronto soccorso per queste emergenze, senza andare alla radice, senza reagire contro quell’andazzo di costumi e di politiche che generano questo stato di cose? No, si rifiuta questa alternativa, l’alternativa di “fare una cosa o l’altra”, perché bisogna fare una cosa e l’altra. In un recente articolo portavo una specie di parabola: un papà passeggia su una strada frequentata tenendo per mano la sua bambina. In un momento di distrazione la bambina si svincola, attraversa la strada e un’auto la travolge. Io sono lì. Che faccio? Corro dal papà per rinfacciargli la sua distrazione o mi precipito sulla bambina per il primo soccorso? Ovviamente mi precipito sulla bambina, non sul papà per rinfacciargli la sua distrazione; più tardi non mancherò di dagli la lezioncina. Ma sul momento è verso la bambina la mia attenzione. Esattamente come ci insegna la nota parabola evangelica del Buon Samaritano, il quale si china subito sul malcapitato lasciato mezzo morto sulla strada da Gerusalemme a Gerico. Il levita o il sacerdote che “sono passati oltre” dandosi e no uno sguardo sul disgraziato, forse avevano in mente, arrivati a Gerico, di protestare con l’autorità o le forze dell’ordine perché provvedessero a rendere più sicura la strada. Probabilmente il Samaritano avrà fato lo stesso pensiero, ma per il momento l’urgenza era un’altra.
Il Fondatore del mio Istituto Missionario, il Beato Giovanni Battista Scalabrini, ha operato nel periodo più drammatico della nostra emigrazione, che ha portato fuori patria una fiumana incontenibile di sangue italiano. Anche allora giravano per città e campagne migliaia di “agenti di emigrazione” a reclutare clienti per le compagnie di navigazione e le ditte americane. Certo Scalabrini guardava lontano e fece ogni sforzo perché venisse varata una legge che ponesse un argine a questa macabra speculazione. Ma allo stesso tempo egli guardava e stimolava i suoi missionari a guardare all’immediato, alle urgenze del momento e per questo girò mezza Italia per mettere all’erta e per segnalare vie più sicure di espatrio. Proprio quest’anno ricorrono i 125 anni di fondazione dell’ “Opera S. Raffaele” da lui istituita per la tutela dei nostri emigranti nei porti di imbarco e di sbarco contro quelli che era solito chiamare “mercanti di carne umana”. Dunque ieri come oggi. Possiamo cogliere lezioni di saggezza anche dalla nostra storia.
*Missionario Scalabriniano a servizio del centro di ascolto per i migranti della Parrocchia di Sant’Agostino in Reggio Calabria