A un mondo in cui la paura di estremismi e fanatismi porta erroneamente a considerare, assimilare e uniformare tutte le religioni solo per il fatto che ammettono l’esistenza di Dio. A un mondo che volutamente ha perso la capacità di distinguere, discernere, di riconoscere non solo l’insegnamento del passato ma anche la profezia del futuro. In questo mondo hanno ancora valore queste parole perché non sono parole che la Chiesa ha inventato o coniato come semplice slogan per convincere e dominare, ma espressione della continua volontà di Dio che in Cristo Gesù ha raggiunto il suo compimento e completamento. Che la missione è intrinseca ad ogni chiamata raccontata dalla Bibbia è evidente, non solo dalla storia dei grandi personaggi, ma anche da quei piccoli avvenimenti o episodi come può essere quello che viene riportato dalla prima lettura della XIII domenica del Tempo Ordinario dell’anno liturgico. Una semplice ed anonima donna inizia da avere una certa benevolenza nei confronti del profeta Eliseo, che si manifesta con gesti di accoglienza progressivi: l’invito a mangiare alla sua tavola, la preparazione di una camera attrezzata di tutto il necessario dove possa fermarsi a riposare. A questi gesti di accoglienza la donna giunge attraverso una verità di cui ha preso coscienza: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi». Il circolo del bene si muove tra la testimonianza e l’accoglienza, ma non si chiude in sé stesso, poiché il bene non raggiunge un termine ma ha necessità di continuare a esistere che lo porta continuamente ad aprirsi. Per questo l’attenzione della dona e del marito conducono il profeta a chiedere al suo servo Giezi: «Che cosa si può fare per questa donna?». Non è la conoscenza delle “povertà” della donna che suscita la volontà del bene nel profeta Eliseo, ma il valore dell’accoglienza che fa scoprire la mancanza. La donna non accoglie il profeta per opportunismo ma perché questi è un uomo di Dio, il gesto dell’accoglienza purificato dall’intenzione stessa della donna apre il profeta al bene e alla ricerca del bisogno. Il brano in sé stesso non ha solo la funzione di dare un insegnamento didattico-morale ma di scoprire l’agire di Dio nella storia.
È l’esperienza che ogni uomo può fare attraverso la missione di Gesù e i suoi discepoli. Quello che stupisce e che deve fare riflettere prima di ogni altra cosa è che Gesù rende partecipi del suo mandato i discepoli prima della morte e risurrezione. I discepoli non sono i “sostituti” di Gesù, ma coloro che resi partecipi di alcuni dei suoi poteri e abilitati dal suo mandato, estendono e continuano la sua missione. Il brano che conclude il discorso missionario del capitolo dieci del Vangelo di Matteo è caratterizzato da una seria di “Chi”, che da una parte qualificano i discepoli dall’altra i destinatari della missione. I discepoli per condividere la missione di Gesù devono essere legati a lui da un amore prioritario. Amare lui più della madre e del padre, del figlio e della figlia, non è un discorso che riguarda il campo emotivo-sentimentale, ma quello che concerne l’ambito esistenziale. Ciò che qui viene messo in gioco è la loro identità, il loro valore, la loro dignità. Il padre e la madre rappresentano il passato, l’origine, ciò da cui si proviene, da cui abbiamo ricevuto la vita; il figlio e la figlia fanno riferimento al futuro, ciò su cui ci si proietta, che ci permette di continuare a vivere. Con la sua affermazione Gesù si pone, quindi, come inizio e fine di ogni cosa, inizio e pienezza di ogni vita; la dignità, cioè il valore di ogni persona viene definita in riferimento alla persona di Cristo e all’amore prioritario che egli richiede, richiesta che non indica solo l’aspetto cronologico ma anche logico. E per non cadere nell’incomprensione, lasciando i discepoli nel vago, Gesù specifica in che cosa consiste l’amore. Il dono viene definito dal terzo membro della quarta parte del parallelismo: al «non è degno di me»che si ripete tre volte nella parte finale dei primi tre “chi” corrisponde, nella parte iniziale dei primi due membri, l’amore verso i parenti e nel terzo, il prendere la croce, e al “più di me” corrisponde nel terzo “mi segue”. Per partecipare alla missione di Gesù è necessario prendere la propria croce e seguirlo, perdere la propria vita a causa di Gesù. Amare Gesù non significa solo prendere la propria croce ma anche seguirlo. La sequela qualifica ogni croce perché Gesù ha preso la nostra croce, seguirlo significa riprendere quella croce trasformata dal sacrificio che Gesù ha fatto sulla croce per noi, significa perdere la propria vita per lui e ritrovarla.
La seconda parte della pericope si preoccupa dei destinatari della missione, di coloro a cui è richiesta l’accoglienza. Anche il più piccolo gesto di accoglienza, come il dare un bicchiere a uno dei piccoli, perché è discepolo di Gesù, porta a una ricompensa. La ricompensa non è legata alla fatica a o allo sforzo dell’accoglienza, ma a colui che si accoglie. E se chi accoglie un profeta avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto avrà la ricompensa del giusto, chi accoglie i missionari perché discepoli di Gesù avrà la ricompensa di «colui che ha mandato Gesù».