Tale contraddizione sarà lampante nei diversi personaggi del lungo racconto della passione, che da seguaci e amici del Maestro si presenteranno come suoi traditori e nemici. Come oggi non riconoscerci e identificarci “comunitariamente” in quella folla e individualmente in Pietro, Giuda, Pilato, o uno degli altri apostoli che al primo pericolo tagliano la corda e vanno a nascondersi di qua e di là! Anche noi ci presenteremo nelle nostre chiese esultanti e gioiosi, canteremo baldanzosi il nostro “Osanna al Figlio di David”, e recheremo in bella vista tra le nostre mani le palme e i ramoscelli d’ulivo, simboli di chi ama la giustizia e la pace. Ma nella vita di ogni giorno talvolta ci vergogniamo di vivere da cristiani, ci rifiutiamo di abbracciare la nostra croce, ci dispensiamo da tutto ciò che sa di sacrificio, rinunziamo a ogni gesto di umiltà e di perdono, preferendo seminare zizzania, accendere liti e contese, e non esitiamo a presentarci giudici implacabili e giustizieri spietati, specie verso i poveri Cristo che non mancano nel nostro mondo. È vero, non è facile entrare nella logica della croce, a nessuno piace soffrire, anzi in essa continuiamo a vediamo il segno di un castigo del Signore, l’abbandono di Dio troppo preso e distratto da mille altre cose, muto davanti al nostro dolore, cieco davanti alle sofferenze, sordo davanti alle preghiere. Eppure Gesù è stato chiaro fin dal principio, non ci ha ingannato, non ci ha illuso, non ci ha promesso gloria e successi, ma con chiarezza unica e irripetibile, ha detto a ciascuno di noi: “Chi mi vuol seguire prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. Ed ha aggiunto: “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, e chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà”.
Non ci sfugga poi la sua grande obbedienza al Padre, ossia la sua ineguagliabile capacità di fare sempre e comunque la volontà del Padre. Certo, anche Cristo dovrà combattere più volte, in particolare nel Getsemani, contro l’angoscia provocata dalla prospettiva della sofferenza e della morte ma, come dice la lettera agli Ebrei, “imparò l’obbedienza delle cose che patì”. “Padre mio se è possibile passi da me questo calice”, il calice amaro dell’abbandono, del tradimento della condanna, della croce, e persino della morte. Ma subito aggiunge: “Però non come voglio io ma come vuoi tu”. E così, forte solo dalla consapevolezza di compiere la volontà del Padre, va verso la croce, verso la morte, senza esitazione, senza ribellarsi, senza contestare o peggio maledire, ma presentandosi come “agnello muto davanti ai suoi tosatori”. Gesù trasforma così la sua passione in dono, rende la sofferenza e l’amarezza della sua morte strumento di salvezza per tutti gli uomini. Compie adesso quanto aveva espresso prima, in modo mistico, nell’ultima cena, quando aveva detto: “Questo è il mio corpo donato, questo è il mio sangue versato per tutti. Fate questo in memoria di me”. Solo quando impareremo come Gesù a dare anche noi la vita per i fratelli, e non solo a parole, permetteremo alla Chiesa di essere quello per cui è stata voluta e fondata: il prolungamento e l’attualizzazione della salvezza di Dio per l’umanità.
Monsignor Giacomo D’Anna