In realtà Dio, non solo si è mostrato, ma soprattutto si è raccontato, è entrato in un tempo e in uno spazio, allora quando parliamo di rivelazione ci dobbiamo ricordare che l’esperienza di Dio non dipende da noi, se non in un secondo momento come conseguenza, ma dalla volontà di Dio di regalarci sé stesso nella storia. Senza cadere nell’errore di chi pensa che parlare della storia di Dio s’intende parlare della “mutazione” di Dio, possiamo entrare nella storia di Dio, così come lui l’ha rivelata, così come la raccontata, come l’ha raccontata all’uomo. Per questo motivo lo strumento di conoscenza e di esperienza non può essere la ragione che attraverso l’induzione e la deduzione cerca di afferrare, ma la fede poiché essa è il varco che Dio ha aperto nella storia attraverso il quale filtra e splende ogni verità.
Questa fede è stata donata e accolta da Mosè come possibilità, davanti al peccato di idolatria del popolo non cerca giustificazioni o punizioni ma semplicemente prende coscienza del limite si fida di Dio e si presenta davanti a lui con nuove tavole di Pietra. È questo l’esempio più bello della ricerca di comprensione del mistero, presentarsi davanti a Dio come delle tavole di pietra vuote, sopra le quali lui possa scrivere sé stesso. Tavole vuote non perché prive di peccato e di colpa, ma perché mancanti di pretesa di arrivare a Dio, e all’uomo senza Dio, tavole preparate e pronte, nonostante il peccato, a ricevere l’alleanza che Dio vuole stringere: «Questa sarà l’alleanza che concluderò … porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore … tutti mi conosceranno perché i perdonerò la loro iniquità e non ricorderò il loro peccato» (Ger 31,33-34). La conoscenza di Dio non dipende dalla nostra capacità ma dalla sua misericordia, è questa la prima legge che il Signore scrive nelle nostre tavole, nel nostro cuore, questo è il suo nome che proclama quando scende dalla nube e passa davanti a Mosè: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà». Questo versetto che “definisce”, o meglio orienta alla comprensione del nome di Dio è costituito dalla ripetizione, due volte, del tetragramma sacro e dall’aggiunta di due aggettivi che dovrebbero qualificare e nello stesso tempo richiedono di essere determinati. In definitiva ciò che solo può esprimere Dio è la sua presenza in mezzo agli uomini, è questo il significato più vero del tetragramma, la misericordia e la fedeltà si manifestano nel suo agire, nei confronti dell’uomo Dio fa fatica (è lento) ad adirarsi, ma è pronto, veloce, e immediato ad offrire la sua grazia e la sua fedeltà.
L’espressione piena e definitiva di questo agire misericordioso è il dono del suo Figlio Gesù Cristo, segno assoluto del suo amore. Ecco Dio è amore! Ma quando diciamo che Dio è amore cosa intendiamo? La tentazione di definire Dio in base alle nostre idee e categorie è forte, la rivelazione non solo ci toglie da questo pericolo, ma diventa l’unica strada sicura su cui camminare. Dio è amore perché «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito». Il dono del Figlio permette all’uomo di evitare la morte e di ereditare la vita eterna. Gesù è l’espressione vivente, che viene offerta a ogni uomo, della misericordia e dell’amore di Dio, qualunque uomo può incontrarlo e farlo entrare nella sua vita attraverso la fede. Non credere che Gesù sia stato mandato a salvare il mondo, rifiutare questa salvezza mette l’uomo nella condizione di giudizio. La condanna non è, a questo punto, un’azione che parte da Dio, ma qualcosa che nasce dall’uomo nel momento in cui rifiuta la presenza salvifica di Dio attraverso la presenza e l’azione dell’Unigenito Figlio.
È interessante che anche nel Vangelo di Giovanni come nel libro dell’Esodo si faccia riferimento al nome, così come alla richiesta di Mosè di camminare in mezzo al popolo Dio rispondeva con la rivelazione del suo nome, così oggi, ogni volta che noi invochiamo la presenza di Dio nella nostra vita, il Signore ci risponde donandoci la presenza del suo Figlio Unigenito. Questa presenza chiede a noi un duplice atteggiamento, anzitutto la fede, l’unico modo di accogliere l’amore di Dio, e poi la carità. S. Paolo nel saluto finale della Seconda lettera ai Corinzi esorta i fedeli alla perfezione della carità, la fraternità cristiana, che trova la sua origine nell’amore trinitario, può diventare sorgente di pace e di gioia solo se riflette in modo sensibile la realtà di un Dio che si è fatto conoscere come Signore della misericordia e della pietà. Perché nonostante la dura cervice e le colpe del suo popolo Dio è sempre pronto a fare di noi la sua eredità.