Abbiamo bisogno di consolazione e tenerezza sempre, ma in particolar modo quando il peso della vita si fa più gravoso e avvertiamo che le cose più belle, a cui abbiamo legato tanta parte delle nostra dimensione affettiva, si stiano deteriorando e vadano perdute per sempre. I primi lettori di Luca hanno già assistito alla distruzione del tempio e comprendono bene lo spessore profetico del detto di Gesù; pertanto l’interrogativo «quando accadranno queste cose» è ormai superato dall’evidenza dei fatti, e questo rivela una costante della storia umana: il male giunge, anche prima del previsto, talvolta peggio del previsto. Tuttavia Gesù sposta l’attenzione dal ‘quando’ al ‘come’ e consegna al discepolo una serie di raccomandazioni per non soccombere. Anzitutto l’esortazione a non lasciarsi ingannare da coloro che si presentano come depositari della verità, quasi usurpando il ruolo di Cristo, l’unico che può dire «Sono io», e spacciandosi come interpreti degli eventi futuri. Costoro non vanno seguiti; il discepolo segue solo il Maestro divino e con la stessa determinazione non indugia nella via dei falsi maestri. Ancora, «non vi terrorizzate» dinanzi all’imperversare della violenza, perché la paura può generare altra violenza, mentre il saldo ancoraggio alla Parola permette di discernere anche nelle più cupe manifestazioni di odio un residuo di speranza da cui ripartire. Il linguaggio di Gesù assume una coloritura più intensamente apocalittica menzionando «fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo». È vero che prima del ritorno di Cristo accadranno nella storia umana, più che nel cosmo, eventi terribili che faranno saltare i punti di riferimento e potranno mettere in discussione tutto ciò in cui uno ha creduto, ma questa sarà come la gestazione che prepara il parto, la crescita del regno di Dio che viene nella storia personale di ogni uomo, chiamato ad uno sguardo più ampio sulla propria vita, da inscrivere dentro una storia incamminata verso la pienezza. Se tutto procede verso il fine voluto da Dio, il cui piano di salvezza non è distrutto neanche da tragedie che sembrano negarlo, il contributo specifico che il discepolo può dare alla crescita del Regno è la perseveranza nelle persecuzioni «a causa del mio nome». La prova più grande per il credente è sperimentare nella propria carne come l’adesione a Cristo non dà una sorte facile, ma provoca contrasti col mondo e con se stessi, incomprensioni e fatiche, addirittura morte e abbandono. Come evitare in questi casi una via di fuga quasi naturale, il rifugio in qualche piccola soddisfazione sensibile, l’amara sensazione che l’amore è sempre in perdita? Gesù spiega chiaramente che ciò diventa «occasione di dare testimonianza» della propria fede. È quello che volevamo sentirci dire da sempre! Ha un senso il dolore, il fallimento, la mancata gioia che a volte si sperimenta nella comunità cristiana e persino i tradimenti subiti! In questi casi, continuare a credere è come ingrossare le acque sotterranee di un paese; la testimonianza non sempre è riconosciuta ma esiste e al momento opportuno può scaturire dal pozzo di un ricordo o di un incontro e dissetare chissà quanta gente. Occorre però «non preparare prima la vostra difesa», come fa il mondo, prevenuto e guardingo; bisogna rifuggire dai metodi degli avversari del vangelo i quali, presto o tardi, verranno messi a tacere dalla forza dell’amore che non è mai perso quando si perde nell’abbandono confidente in Dio. Dobbiamo piuttosto perdere alla svelta le cose che non contano. Perseveranza è stare sotto, sottomettersi all’amore di Dio per poter così sorreggere il peso degli eventi. E quanto è bello portare gli uni i pesi degli altri: è il segno di una comunità incamminata verso il Padre. Se invece non diamo questa direzione alla vita, anche il più piccolo dolore può diventare insopportabile.