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Dio ha scelto di rivelarsi nella fragilità dei piccoli

gesù

Con le dovute proporzioni questa verità si afferma quando parliamo della rivelazione e della fede. Negli ultimi tempi si sente parlare di fede legata ai luoghi e alle tradizioni: «In altri contesti e con altri genitori la mia confessione religiosa sarebbe diversa». Come se la fede dipendesse solo da chi la trasmette e non da Dio che si rivela, il deposito di fede è affidato agli uomini, ma la fonte è Dio che agisce e si manifesta. La fede non è un assenso cieco a qualcosa che viene detta da qualcuno, la sua dimensione e la sua natura sono fondate su una verità che pur rimandando a qualcos’altro non può fare a meno di rimanere ancorato a ciò che è tipicamente umano e che possiamo definire logico e ragionevole. Quello che tante volte manca nel percorso spirituale è il legame che c’è tra fede e rivelazione.
La rivelazione divina è ciò che è umanamente inaccessibile, per questo motivo il suo contenuto e la via di accesso sono primariamente un dono di Dio. Essa è costituita da parole, visioni ed eventi che posti nel tempo costituiscono la storia che da una parte li ospita dall’altra ne viene trasformata, ed in questa storia della salvezza che fa la sua comparsa la fede come dono di Dio che così si pone in continuità costituendo un legame inscindibile con la rivelazione. Di questa dipendenza ci parla in modo chiaro S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparato per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito» (1Cor 2,9-10). L’apostolo arriva a quest’affermazione citando anche l’Antico Testamento, primo testimone dell’agire di Dio e della sua pedagogia rivelativa. Dio ha preparato il suo popolo attraverso le promesse messianiche dei profeti, tra questi il profeta Zaccaria ci presenta il Cristo come re, forte e potente, capace di spezzare l’arco della guerra e di istaurare un dominio di pace, un Messia che si presenta con segni di umiltà cavalcando un puledro, figlio d’asina.
La rivelazione trova il suo culmine in Gesù Cristo, il verbo di Dio che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Nonostante la sua presenza, e i segni concreti da lui compiuti, anche le persone meglio disposte alla sua accoglienza hanno avuto bisogno di porre la domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?» con questa domanda di Giovanni Battista, che oggi potrebbe e essere sulla bocca di ognuno di noi, si apre il capitolo undici del vangelo di Matteo che ha la funzione di testimoniare la difficoltà di accettare la rivelazione di Dio e nello stesso tempo, esplicitando la necessità del suo agire, di fornirci gli strumenti e l’esempio per superare tale difficoltà. La risposta di Gesù è articolata: nei versetti 2-15 egli ci invita a conoscere la sua identità attraverso le sue opere; nei versetti 16-24 denuncia, rimprovera ed avverte sui rischi che corre la mancata accoglienza; ed infine nei versetti 25-30 ribadisce qual è il suo legame con Dio e come noi possiamo coglierlo. Quest’ultima parte è la pericope evangelica che ci viene offerta dalla liturgia della parola di questa domenica. Per comprenderla è necessario riprendere alcuni termini della risposta di Gesù. Al versetto 12 dice: «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli sente la pressione della violenza e i prepotenti vogliono impadronirsene con la violenza». Dal momento in cui Giovanni fa riferimento a Gesù e al suo Battesimo, c’è qualcuno che vuole arrivare a lui attraverso la violenza delle cose umane, Paolo avrebbe detto: «Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti, quello che è debole per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i forti, quello che è ignobile e disprezzato, Dio lo ha scelto per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29).
A questa generazione sono state date diverse possibilità che non ha colto, «ma la sapienza è stata riconosciuta giusta dalle opere che compie» questa affermazione sembra estranea al contesto, invece è la conclusione parziale di una prima parte in cui Gesù sostiene che la rivelazione non dipende dall’accoglienza bensì l’accoglienza dipende dalla rivelazione. Non accogliere Gesù non sminuisce o riduce la rivelazione di Dio. In questo modo la risposta alla richiesta del Battista necessita di un riferimento all’agire del Padre. Nel rivolgersi al Padre Gesù usa un verbo che molte volte viene tradotto con “ti benedico”, “mi compiaccio”, “ti rendo lode”, ma in realtà sarebbe meglio tradurre con “concordo”, “convengo”, l’intenzione di Gesù, infatti è quella di testimoniare l’obbedienza alla volontà del Padre. Il Figlio entra nella volontà del Padre non solo perché “si dona”, ma perché “si dona a”, i violenti hanno cercato d’impadronirsi del regno dei cieli, ai sapienti e agli intelligenti sono nascoste queste cose, ai “piccoli”, cioè agli stolti, ai deboli, e ai reietti viene gratuitamente rivelato. Il regno dei cieli non è qualcosa che l’uomo può creare, scoprire e afferrare, ma “la conoscenza” reciproca del Padre e del Figlio, il loro legame, la sua trasmissione e comunicazione non è qualcosa che l’uomo può cogliere con le sue capacità, ma un dono che dipende dalla volontà del Figlio. Ecco, allora, l’invito: «Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi »dalla pretesa di Arrivare a Dio senza Dio. Venite a me voi tutti affaticati dallo sforzo immane di possedere Dio e la sua verità, io vi farò riposare da questa inutile fatica. Alla pretesa di afferrare Dio, che è un carico pesante, viene contrapposto un giogo leggero che per essere portato ha bisogno di mitezza e umiltà di cuore.