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Gesù viene informato che l’amico è moribondo ma sceglie di non accorrere al suo capezzale perché «questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio». Ci sono cose di cui sul momento non comprendiamo il senso, anzi ne vediamo solo la carica negativa. Solo Gesù, tuttavia, nella morte sa coniugare i verbi al futuro: Lui non interviene né troppo presto, né troppo tardi, ma al tempo giusto, quello cioè che permette di trasformare la prova dell’uomo nell’esperienza della fedeltà di Dio. Qui ad essere messa a dura prova è l’amicizia tra Gesù e questa famiglia di fratelli; chissà cosa avrà pensato Lazzaro, non vedendosi l’amico vicino: forse sarà stato sfiorato dal dubbio di non meritare le attenzioni del Maestro, proprio lui che era stato accanto a Gesù in tante guarigioni e che conosceva la compassione del suo cuore. Il silenzio di Lazzaro diventa invece protesta in Marta: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». È la voce accorata del credente, che deve gridare almeno al Signore il dolore della perdita, ma non manca di confidare in Lui. Marta si àncora ad una speranza terrena, non sa ancora che la vita che l’Amico è capace di donare è vita che non muore, vita eterna che comincia fin da quaggiù. Comprende ancora poco di ciò che Gesù le risponde: «chi crede in me, anche se muore, vivrà»; eppure, dopo le parole dell’Amico, professa una fede piena verso la sua persona, indicando a tutti che il cuore del cammino del discepolo non è quanto capisci del mistero o le cose che fai per Dio, ma l’appassionarti all’umanità di Cristo, l’adesione incondizionata a Lui, «autore e perfezionatore della fede» (Ebrei 12,2). Marta va poi a chiamare Maria: «Il maestro è qui e ti chiama». Maria, a differenza della sorella che aveva reagito alla morte con agitazione e lamenti, si era chiusa nel silenzio e nell’immobilismo, come se la morte del fratello fosse la sua stessa morte. La parola di Gesù è per lei una chiamata alla vita, e l’evangelista usa verbi di risurrezione per indicare l’uscita della donna dalla casa di morte per incontrare il Signore. Il pianto di Maria e dei Giudei contagia anche il Maestro. È bellissimo il pianto di Gesù: sono le lacrime divine che bagnano la nostra terra e la fecondano; sapere che quando tu piangi, Dio piange con te, ti dà la certezza che neanche una lacrima è perduta e che il lamento si può trasformare in danza. Il successivo comando di Gesù di togliere la pietra rivela i sentimenti del Padre che vuole liberare i figli da tutto ciò che opprime il loro cuore. Sotto quale pietra tombale giace la parte più autentica di me? Nell’odierna società in cui la regola è diventata apparire vincenti, giovani e belli, rischiamo di tenere nascosta la verità dei pensieri e sentimenti che ci abitano: abbiamo bisogno di accettare e confessare la nostra normalità, fatta anche di fragilità e peccato, ma ancor più di slanci d’amore che dobbiamo con coraggio manifestare. E l’invito immediatamente successivo del Signore, «Lazzaro, vieni fuori!», è la voce di Dio che entra nella parte di me che giudicavo morta, non amabile, dove credevo di non poter essere visitato da nessuno. È lì che il Signore vuole arrivare, per risuscitare il Lazzaro nascosto dentro ognuno. «I piedi e le mani legati con bende e il viso avvolto da un sudario», da cui Gesù ordina che l’uomo tornato in vita sia liberato, ci dicono che l’evento della nascita a vita nuova nella fede scioglie ogni legame col male cui eravamo legati e rimuove le maschere che per paura o ipocrisia abbiamo indossato dinanzi agli altri e a noi stessi.
La risposta di Gesù è arrivata. Egli non è un Amico che ti risolve i problemi, fosse anche il più grave, quello della morte, ma dà una risposta al problema del nulla e del non senso. La risposta di Cristo schiude orizzonti prima inesplorati, che l’uomo non avrebbe potuto tracciare da solo e ci pone un interrogativo decisivo: la mia è una speranza mondana o ultraterrena? La speranza va orientata al nostro fine ultimo, altrimenti è destinata a sbattere contro il muro della morte e a frantumarsi.