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Davanti alla sofferenza non voltarsi mai dall’altra parte

Forse perché anche noi non siamo stati risparmiati dal contagio della cosiddetta “sclerocardia”, una delle malattie spirituali diagnosticate da Papa Francesco in un discorso molto forte alla Curia Romana in occasione del Natale 2014. Il Pontefice non si limita solo a drastici giudizi, ma propone sempre la giusta terapia e il salutare rimedio: “Il cristianesimo è una cura risolutiva per quel tipo di sclerosi, ma la terapia comporta la costanza nel discepolato sui passi di Gesù”. Avere il cuore indurito, il cuore invecchiato, è uno delle più tristi contraddizioni del nostro essere cristiani, che dovrebbe portarci ad essere capaci di avere un cuore puro e libero, pronto ad amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come noi stessi. In fondo è tutta qui la sintesi del vangelo in generale e della pagina evangelica odierna. “Non si può amare Dio che non vediamo se non amiamo il prossimo che ci sta accanto” (1Gv 4,20), così come non si può essere uomini del tempio senza essere prima o comunque uomini della strada; in una parola non si può insegnare la legge di Dio senza testimoniare il suo amore misericordioso. Eppure chi di noi può dire di aver vissuto sempre così la propria fede nel Signore?
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto l’incontro tra Gesù e il dottore della legge che apre il vangelo di oggi. Un dialogo breve ma intenso che verte su ciò che più stava al cuore degli ebrei al tempo di Gesù: cosa fare per avere la vita eterna? Qui si parla di cosa fare, e non cosa essere per conseguire la felice meta. Mi colpiva sempre un’espressione usata non poche volte nelle sue omelie da Mons. Vittorio Mondello, oggi arcivescovo emerito della nostra diocesi: “Ci preoccupiamo tanto della salvezza della nostra anima, dimenticando che non la salveremo mai se prima non ci sta a cuore la salvezza dei nostri fratelli”. Precisando con forza che “più ci preoccupiamo della salvezza altrui, tanto più conseguiremo con estrema facilità la nostra”.
A nessuno sfugga il messaggio spirituale di quello che è forse considerato un messaggio polemico con gli ebrei di ieri, ma che per noi deve rappresentare oggi un monito forte. Gesù propone come modello un samaritano, ossia un estraneo per la gente per bene e religiosa, uno “scomunicato” come lo potremmo definire noi, a differenza dei farisei, emblema della gente dalla fede forte e adamantina, per la stretta osservanza della legge. In realtà essi erano vuoti e insignificanti, e per questo non credibili, in quanto incoerenti con la fede professata con le labbra. Gesù usa dieci verbi per descrivere tutto l’amore e la compassione manifestati nei confronti del malcapitato viaggiatore; il numero non può non rimandarci alla dieci parole, ai dieci comandamenti di Mosè, per dire che solo il “buon samaritano” aveva davvero compreso l’essenzialità della legge di Dio, a differenza del sacerdote e del levita, che invece videro e “deviarono”, videro e “passarono oltre”.
Quante volte anche noi davanti alla sofferenza dei fratelli ci giriamo dall’altra parte, acceleriamo il passo perché non abbiamo tempo o forse perché pensiamo di essere troppo impegnati in opere giuste e sante, come recitare preghiere, fare novene e coltivare antiche e nuove devozioni!
Diceva Madre Teresa di Calcutta: “Il grande male è l’indifferenza!”. Ecco perché non possiamo oggi non chiedere al Signore un cuore nuovo, un cuore di carne al posto del cuore di pietra (cfr. Ez 36,26-27), in poche parole un cuore capace di amare Dio sopra ogni cosa, senza trascurare di amare il prossimo più di noi stessi.