Il brano di oggi è il racconto della cosiddetta “polemica di Gesù con i farisei”. Il discorso naturalmente non è motivo per incrementare antipatia o diffidenza nei confronti della religione ebraica, né tanto meno per impiantare una disputa teologica tra le nostre usanze e tradizioni religiose e le loro. Gesù, entrando in polemica con i farisei, intende fondare una religiosità nuova, quella “del cuore”, interiore, basata non tanto sull’osservanza scrupolosa della legge (che il popolo d’Israele conosceva bene nei suoi 416 decreti, numero che esprimeva la totalità, la pienezza dell’impegno di tutta l’esistenza), ma sul comandamento dell’amore.
Il testo inizia con un’annotazione dell’evangelista che ci parla di un gruppo di ebrei osservanti venuti da Gerusalemme per indagare il modo di comportarsi dei discepoli dell’acclamato ultimo arrivato “rabbino”, scoprendo proprio l’inosservanza di quelle che erano considerate le norme elementari di appartenenza alla loro religione, in particolare la santa abitudine di prendere cibi con mani pure, secondo i prescritti riti di abluzione. Gesù appare molto duro e deciso nei loro confronti e risponde con l’autorità che solo un rabbino di un certo livello poteva permettersi, dettando legge su un nuovo modo di comportarsi. Lo fa con la forza che viene dalla Parola di Dio, mediante una citazione del profeta Isaia, certamente molto noto ai suoi interlocutori: “Questo popolo mi onora con le labbra, invano mi rende culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”, e aggiunge uno dei pilastri della nuova religione del cuore: “Non è ciò che entra dentro l’uomo ma quello che esce dal suo intimo che contamina”. Cristo precisa con indiscutibile chiarezza e determinazione che non è ciò che entra nell’uomo, ma i “propositi di male” che escono dal cuore umano a renderlo impuro, specificandone ben dodici forme diverse: “impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”.
Il lungo elenco di limiti umani rappresenta tutte debolezze umane relative alle relazioni con gli altri. Ciò significa che per Gesù la religione non può essere centrata solo sul rapporto con Dio, ma deve implicare necessariamente il rapporto con i fratelli. Un principio questo che noi cristiani dovremmo aver compreso e interiorizzato, considerato che è da una vita che sentiamo dire e sappiamo che “non possiamo dire di amare Dio che non si vediamo, se non amiamo il prossimo che ci sta accanto”. Eppure chiediamoci: viviamo così la nostra fede? Siamo veramente fedeli e ci ispiriamo quotidianamente a questo principio fondamentale della religione del cuore? Certamente Gesù dice queste parole non tanto per il gusto di entrare meramente in polemica con i farisei suoi contemporanei, ma per mettere nel nostro cuore un modo nuovo e fecondo di amare Dio e dunque di vivere la religione. Di certo, più che combattere i detrattori, a Gesù sta a cuore che i suoi discepoli di ogni tempo e di ogni luogo non cadano in forme ed espressioni religiose che, seppur in modo nuovo e diverso, riproducano lo stesso spirito e mentalità della religiosità legalistica degli ebrei. Da qui allora l’impegno di vivere la nostra religiosità non rifugiandoci dentro forme di spiritualismi vuoti e insignificanti o esaltando forme di ritualità e cerimonie sacre, fatte di incensi profumati e paramenti antichi, ma di coltivare sempre una religione che metta Dio al primo posto senza trascurare l’attenzione e il servizio al nostro prossimo. Ci venga in aiuto e ci sostenga l’esempio e la testimonianza dei nostri santi che, quando qualche persona povera o bisognosa bussava alla loro porta per chiedere elemosina ed assistenza, pur essendo immersi nella preghiera, senza esitare dicevano: “Lasciamo Dio per andare da Dio”, identificando così nei fratelli più indigenti la persona stessa di Cristo, il quale ha precisato: “Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me”.