Il maestro conosce bene il livello di consapevolezza e la maturità di fede degli uomini, e invita la folla, abilissima nell’imbarcarsi e accorciare così le distanze da Lui, a chiedersi quale sia la vera distanza interiore che la separa da Cristo. Possiamo essere fisicamente vicini alla sua divina presenza nel tabernacolo eucaristico o al capezzale di un moribondo, eppure al contempo il cuore potrebbe essere capace di alienarsi, non più presente a Dio e a se stesso, abitato da presenze mondane non compatibili con l’amore del Signore. Il rimedio a tale rischio è ‘darsi da fare’, non restare inerti, cercare «il cibo che rimane per la vita eterna», sigillato dalla benedizione di Dio. Tale opera, viene specificato subito dopo, consiste nel credere nell’inviato del Padre. Tanto ovvio quanto difficile da praticare! Qui giungiamo ad uno dei grandi quesiti della vita spirituale: perché la fede è così traballante? Perché diciamo di credere e poi ci comportiamo in maniera esattamente contraria alla fede, facendoci prendere dalla paura e dall’egoismo dinanzi ai grandi bivi della vita? La risposta la troviamo nella ulteriore richiesta di un segno che la folla rivolge a Gesù. Se il segno dei pani, invece di rimandare al pane spezzato e donato nella carne del Figlio, viene interpretato non per quello che è ma come rinforzo al proprio bisogno di sicurezza nella lotta per la sopravvivenza materiale e psicologica, allora vuol dire che siamo fuori dell’ambito della fede. Una fede che non si apra al rischio dell’oltre, che miri soltanto a trarre energia per affrontare la vita, non è la fede in Gesù Cristo, che invece ti fa misurare con la possibilità della morte e al contempo ti fa intravedere il suo superamento nell’amore. Sì, la fede apre a quell’amore divino che vince la morte. È vero che «i nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto», ma non avevano ancora assaporato il pane di eternità. Chi cerca il pane per sopravvivere, sopravvive; chi cerca il pane di vita, vive. Entrambi sono espressione del dono di Dio; la differenza è che il primo te lo prendi e lo consumi fra te solo; il secondo lo accogli guardando negli occhi chi te lo dona. È sempre la relazione con Cristo a schiudere dinanzi a noi l’orizzonte dell’eterno; da soli non possiamo trascendere noi stessi. Davvero potremmo dire che chi crede non cammina ma corre, anzi vola! Questo pane estingue la fame di altri cibi e la sete di altre bevande, cioè appaga totalmente il desiderio dell’animo umano. Ecco la sfida: mi basta Gesù? C’è chi ha ricevuto tutto l’amore dai genitori o dal coniuge eppure va cercando altri padri o amanti. Tale inquietudine è motivata dalla incapacità di farsi nutrire dall’amore che ti viene donato. Ci si concentra sulla degustazione, pensando che essa esaurisca tutto il processo del nutrimento. Chi vuole solo trangugiare un cibo frettolosamente, non farà una buona digestione, non permetterà a quell’alimento di nutrirlo davvero. In altre parole, non basta avvicinare il cibo al palato, occorre farlo entrare in profondità. La superficialità che impedisce la mancanza di profondità è il male del nostro tempo. Rapporti che si estendono orizzontalmente e nella frenesia di un vorticoso contatto virtuale, ma che non ti segnano, non ti lasciano niente dentro e non ti permettono di lasciare una traccia di te all’altro. Dovremmo avere il coraggio di limitarci nell’esercizio di una libertà senza scelte di campo perché, se rimani sempre aperto ad ogni possibile sviluppo della tua libertà, succederà che ‘chi troppo vuole, nulla stringe’. La libertà implica scelte, sacrifici, rinunce; comporta superamento di qualsiasi ambiguità, perché una persona che vive una doppia vita impiegherà le sue energie nel nutrire alternativamente l’una o l’altra vita, rimanendo sempre dentro se stessa. Chi invece vuole uscire da sé e ‘segnare’ la vita dell’altro, deve ritrovare la propria unità interiore. Se sei uno lasci un segno; se sei più di uno tracci solo scarabocchi. Tutto questo è possibile perché quel giorno Gesù parlò: in principio una parola che si fa cibo. Ascoltiamola.