È molto significativo che nei tempi forti dell’Avvento e della Quaresima la liturgia metta in risalto una precisa domenica da dedicare al tema della gioia. In questo periodo la chiamiamo domenica “Gaudete”, nel tempo quaresimale “Laetare”. Entrambe le espressioni latine ci invitano al senso della gioia, della letizia. Ce lo ricordava proprio qualche settimana fa p. Sergio Sala s.j. nella seconda lectio del nostro sinodo: “Il termine ‘letizia’ (agalliasis) è qualcosa di più di una semplice allegria: è una gioia dell’animo che prescinde dalle situazioni, se le cose vadano bene o vadano male, come testimonia San Paolo che si rallegrava anche nelle tribolazioni (Rm 5,2). La gioia è il segno della presenza di Dio; viene da pensare nuovamente alle beatitudini (Lc 6,20-23). Quando un tal senso di sicurezza in Dio afferra la persona o la comunità, la vita cristiana s’impronta di vera gioia e di fiducia”.
Il tempo di Avvento e il percorso sinodale sono allora uniti dallo stesso significato, syn-odos, ossia camminare insieme. Certamente una cosa è camminare con il passo stanco e faticoso, altra cosa è procedere con passo spedito e sollecito. Il primo non può non accompagnarsi con un atteggiamento triste e malinconico, il secondo inevitabilmente con uno stile felice e gioioso. La gioia per qualcuno è una “illustre sconosciuta”, considerato il periodo di pandemia che stiamo vivendo, i problemi socio-economico che dobbiamo risolvere, le difficoltà che dobbiamo affrontare… La giusta indicazione in modo chiaro ed inequivocabile ci viene come sempre dalla Parola di Dio: dobbiamo gioire perché “il Signore è vicino; Egli viene a salvarci”. È questione solo di fede. Sappiamo che la gioia cristiana non è certo un alienarsi o sfuggire le quotidiane difficoltà e disattendere i nostri impegni; non a caso il vangelo di questa terza domenica di Avvento si apre con una domanda ben precisa che viene rivolta da più parti a Giovanni: “Che cosa dobbiamo fare?”. Anche qui la risposta non è un semplice giro di parole, ma impegno concreto per tutti, sintetizzato poi nell’espressione “amate e fate del bene a tutti”. Non è semplice buonismo, ma istanza fondamentale per quanti si dicono cristiani e vogliono essere testimoni credibili della tenerezza di Dio. Non c’è fede senza giustizia, non c’è pace senza carità, non c’è gioia senza misericordia. Comprendiamo allora che osservare la giustizia e diventare artefici di pace è il segreto per superare quel senso profondo di eterna infelicità, scontentezza, insoddisfazione, nella convinzione che più siamo giusti più siamo felici, più siamo caritatevoli più siamo veramente gioiosi.
Nella seconda parte del brano odierno c’è la precisazione inequivocabile dello stesso Giovanni del suo non essere messia, come qualcuno pensava e si chiedeva. Per far questo egli si limita a una cosa semplicissima: riportare l’attenzione verso il centro di tutto, verso l’assoluto per eccellenza: Gesù Cristo. Ritorna ancora qui alla ribalta la nostra costante tentazione di apparire ad ogni costo, di sembrare i primi della classe, i potenti di turno, i salvatori del mondo. Giovanni non avverte come noi la paura di perdere prestigio, popolarità e potere, e quindi con spontaneità e immediatezza indica il vero messia e Signore e lo fa dando di Lui alcune indicazioni fondamentali della vera messianicità: Cristo battezzerà, a differenza di lui che lo fa solo in acqua, in Spirito Santo e fuoco. Ciò permetterà di purificare, santificare e consacrare, ossia bruciare la paglia delle nostre debolezze e fragilità umane e per poter raccogliere il buon frumento della fede e dell’amore.