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Comprendere la Scrittura liberandoci dai pregiudizi

{module AddThis}Ma la parola è questa e possiamo comprenderla solo se non la leghiamo ai nostri pregiudizi ma se le permettiamo di liberarci dalle nostre categorie. Per farlo è necessario entrare nel suo contesto e lì leggere la Bibbia con la Bibbia. Nel nostro caso, il cammino ci è suggerito e tracciato da due frasi che dobbiamo porre necessariamente all’inizio e alla fine del percorso: «Con quale potere fai queste cose? Chi ti ha dato questo potere?» (Mt, 21,23); «Tutto io posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13).
All’inizio della sezione (Capitoli 21–23) Matteo ci racconta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e la successiva visita al Tempio dove Gesù scaccia i venditori. Il giorno seguente, dopo aver maledetto il fico che non aveva dato frutto al momento della visita, si reca al Tempio e lì viene interrogato dai sommi sacerdoti sull’origine della sua autorità. Gesù si accinge a rispondere chiedendo agli interlocutori di fare un percorso tale che gli permetta di avere la capacità di riconoscere il suo potere. Il brano richiede di essere illuminato anche dal suo contesto immediato, da Isaia 25,6–10 e dal Salmo 23. Il contesto immediato, attraverso le domande e le successive sentenze di Gesù, ci descrive l’autorità come un servizio da cui scaturisce il regno di Dio. Questo servizio nasce da Dio e viene affidato al Figlio che compie la sua volontà, questo è il primo segno che permette agli interlocutori di riconoscere a chi è stata affidata l’autorità. Un segno che viene esplicitato dalla seconda parabola, “i vignaioli omicidi”, in cui il servizio di Gesù sfocia nel sacrificio estremo che lo costituisce Pietra angolare del nuovo Tempio. Il versetto 21,45 è indicativo, le autorità del Tempio riconoscono che Gesù sta parlando di loro ma non hanno ancora capito da dove viene la sua autorità poiché non riescono ad accettare la modalità attraverso la quale viene manifestata.  
L’ultima parabola, quella che stiamo commentando, diventa lo spazio testuale in cui viene rivelato il potere del Figlio e la sua origine, ma nello stesso tempo è lo spazio esistenziale in cui è permesso ai lettori di riconoscere e rispondere. Ciò che viene sottolineato con decisione è proprio questo: l’unilateralità della chiamata, vista quasi come un obbligo, e il dilemma della risposta con le successive conseguenze. Che le nozze simboleggino la comunione gloriosa e definitiva di Dio con il suo popolo è suggerito da tutto l’Antico Testamento e in modo particolare da Isaia e dal salmo 23. Il profeta parla di un banchetto che Dio prepara sul monte per il suo popolo. Ciò che caratterizza il banchetto è la relazione che Dio ha con il suo popolo. Anche il salmo spinge verso quest’interpretazione, il pastore prepara la mensa attraverso il dono della propria vita, per questo le pecore lo conoscono come ci ricorda il vangelo di Giovanni nella relativa similitudine. Le pecore riconoscono il buon pastore e lo distinguono dal brigante, perché entra attraverso la porta. La parabola è la porta che ci permette di riconoscere l’agire di Dio e il potere di Gesù. Nel banchetto delle nozze del figlio, il Re invita a riconoscere quello che lui ha fatto. In questo caso l’obiettivo di Gesù è quello di mostrare la sua autorità in quello che sta per fare. L’ambito delle azioni, infatti, ruota attorno ai ripetuti inviti del Re, la chiamata stessa in questo caso è la possibilità di un sapere e non la concessione di un potere, gli invitati sono resi tali delle nozze, il non rifiuto toglie automaticamente il loro statuto. C’è un crescendo all’interno di questa categoria chiamati–invitati, si parte dai primi, poi gli ultimi ed infine gli eletti. Ed è qui che entra in gioco il concetto di dignità, Isaia parla per opposizione di condizione disonorevole, «il banchetto nunziale era pronto ma gli invitati non erano degni». La dignità, in questo caso, non dipende più dalla bontà o dalla cattiveria, poiché sulla croce Gesù è morto per tutti, ma dal riconoscere la necessità del banchetto. Non riconoscere l’apertura della relazione che Dio fa di sé stesso in Cristo significa chiudersi all’idolatria delle cose materiali e degli impegni mondani che spesso occupano gli invitati e che li portano alla morte.