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Come Abramo il cristiano è chiamato “ripartire” nella fede

abramo

È la pedagogia della Bibbia, l’insegnamento dato al cristiano, il credente sa che durante questo cammino irrompe la voce di Dio, un Dio che non sempre si presenta, non spiega, ma spesso indica, ordina e promette. Il paradigma di questo agire di Dio è la storia di Abramo, fin dall’inizio della narrazione possiamo cogliere quest’irruzione. Nel breve “monologo” che inizia il racconto è Dio il protagonista assoluto, è lui che parla, chiede e promette, s’impegna a fare. Il “vattene” detto ad Abramo non è solo una richiesta di distacco affettivo ma la condizione che Dio chiede per iniziare una nuova storia. Per diventare benedizione per gli altri è necessario, infatti, che Abramo prenda le distanze dalle sue origini in modo tale che il Signore crei in lui e da lui nuove origini poiché questo nuovo inizio sarà fondato sulla benedizione. Abramo è chiamato a rinunciare alle sue origini perché egli stesso deve diventare benedizione. Togliendo ad Abramo le sue origini su che cosa può poggiare la sua vita futura, il cammino e la promessa stessa della benedizione che sarà? Il nuovo punto di partenza è esclusivamente la parola di Dio, una parola che nella sua sostanza non dà niente ma chiede di essere adempiuta, la sua realizzazione dipende da chi parla e da chi ascolta. Una parola che è un invito, un comando che non può essere discusso, non ha posto per i compromessi e non accetta obiezioni, ha un’unica risposta, partire.
La necessità di azzerare la propria logica e di ripartire ci viene proposta anche dal Vangelo, nella dinamica della rivelazione Gesù cerca, in modo progressivo, di annunciare ai discepoli cosa significa per lui essere il Messia, il Figlio di Dio. Quando le parole e i gesti non bastano a togliere la propria idea di Dio e dell’identità del Figlio suo è necessario una visione “particolare” che possa proiettare i discepoli in una dimensione diversa. L’episodio della “Trasfigurazione” si può leggere in un duplice modo, come tappa della rivelazione evangelica e come paradigma della vita del credente. Il punto di partenza storico-teologico è quello riportato dai tre sinottici: la professione di fede di Pietro e dei dodici, il primo annuncio della passione e il suo rifiuto. L’alleanza della professione di fede s’incrina quando Gesù annuncia la sua morte e la sua risurrezione, al lettore viene consegnato questo dialogo: «Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai. Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: “Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”». Nella discussione entrambi chiamano in causa Dio come garante di ciò che deve avvenire, in questo modo per il lettore diventa una necessità sapere qual è la volontà di Dio, il bisogno, come discepolo, di rileggere la situazione presente, di riorientare la sequela, il cammino di fede. Ed è proprio questo che offre l’episodio della trasfigurazione, la possibilità di azzerare la logica umana per poter partire dalla logica di Dio. Nel brano insieme all’introduzione e alla conclusione abbiamo tre parti: la visione; le reazioni-interpretazioni; l’intervento di Gesù. L’evento si presta a molte interpretazioni, sia per il termine “metemorfothe”, sia per i riferimenti al battesimo e alla risurrezione, ma mi sembra interessante rileggerlo attraverso la citazione del salmo 118: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” il salmista che all’inizio del salmo aveva parlato di beatitudine, vede la realizzazione della felicità nella parola di Dio. La manifestazione sul monte ci dà due indicazioni bene precise; Gesù sembra una lampada, da lui esce una luce che i discepoli possono vedere nel volto e nei vestiti; a lui si aggiungono Mosè ed Elia, i simboli anticotestamentari della parola (Legge e Profeti), che dialogano con la Parola. Gesù viene rivelato come Luce e come Parola, l’associazione immediata è il prologo di Giovanni: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”; “E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria di unigenito che viene dal Padre”, ma in modo meno diretto anche quello che Gesù dice ai discepoli nello stesso vangelo di Matteo: “Né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa”, è vero che l’invito è rivolto ai discepoli, ma il “così” che segue suppone un esempio, che è Gesù stesso, è lui che è stato acceso da Dio Padre per essere luce della casa del mondo. L’errore di metterla sotto il moggio è l’errore che sta per commettere Pietro quando vuole costruire una tenda a Gesù, e lo stesso errore che aveva commesso Davide, quando voleva costruire una casa a Dio, è Dio che ha costruito una casa per l’uomo. È necessario ridire questa verità, non più come segno o come promessa ma come realtà: “Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. Insieme alla rivelazione ai discepoli viene dato un ordine. Dio non parla attraverso la logica umana di Piero ma attraverso il Figlio Gesù Cristo. Non c’è posto per le obiezioni ma solo per l’obbedienza. Caduto dalla sua logica Pietro e gli altri due discepoli si trovano non davanti al volto di Gesù, ma con la faccia a terra, ed è lì in quella terra e in quella logica che si accorgono che solo Gesù è venuto a dirci “Alzatevi non temete”. Prime di riprendere il cammino bisogna rialzarsi. E quando la logica umana è cosi tenace e presuntuosa, solo Gesù può avvicinarsi e toccarci, solo quel tocco ci può svegliare dalle nostre illusioni e rimetterci in cammino poggiando il nostro passo sulla parola di Gesù: “Alzatevi non temete”.