Secondo le fonti più antiche – sempre oggetto di importanti riflessioni critiche da parte degli studiosi di antichità cristiane – Clemente è il terzo successore a governo della comunità cristiana di Roma dopo Lino e Cleto.
Nell’Adversus Haereses Ireneo, vescovo di Lione fino al 202, così lo ricorda: «Clemente aveva visto gli apostoli, […] aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione e davanti agli occhi la loro tradizione» (3,3,3); anche il grande ‘archivista’ delle origini cristiane, Eusebio di Cesarea, agli inizi del secolo IV nella sua Historia Ecclesiastica, così dice: «è tramandata una lettera di Clemente […] grande e mirabile; fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma alla Chiesa di Corinto.
Sappiamo da molto tempo fino ai nostri giorni che essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (III,16). A questa lettera, che si collocherebbe negli ultimi anni del secolo I, era attribuito un carattere quasi canonico; suddivisa complessivamente in 65 capitoli, soltanto in una parte relativamente breve (cc. 40-58) affronta la questione della discordia in modo diretto, richiamandosi all’ordine gerarchico e liturgico della Chiesa voluto da Dio, condannando di conseguenza la rimozione dei presbiteri e invitando i facinorosi alla conversione.
Nella lettera troviamo un cristianesimo che si richiama alle origini del mondo, ad Abramo e a Paolo, recependoli entro le categorie del giudaismo soprattutto in merito al rapporto tra la fede e le opere; opere di giustizia praticate nella fede (c. 31). L’orizzonte escatologico è debolissimo in tutto lo scritto: la lunga preghiera finale (c.59,2–61,3), che certamente proviene dalla liturgia della Chiesa romana, è tutta intesa a richiedere la protezione di Dio nel presente.
In questa lettera compare per la prima volta il termine laikòs, cioè figlio del laòs, ovvero del popolo di Dio; essa rivela la propria concezione di Chiesa: radunata dall’unico Spirito che soffia nelle diverse membra del corpo di Cristo senza distinzioni (c. 43). Per entrare pienamente nel cuore di questo scritto, è bene soffermarsi sul passaggio iniziale che ne segna il tono ed è legato all’accesa questione sollevatasi all’interno della comunità cioè «l’empia discordia ( stàsis) sconveniente, estranea agli eletti di Dio, funesta e sacrilega, che pochi personaggi sconsiderati e arroganti hanno attizzato, spingendosi a tal punto di follia da screditare gravemente il nome, dignitoso, famoso e per tutti gli uomini amabile» della Chiesa di Corinto. La condotta dei fedeli è ben lontana da quello stile comunionale, che invece deve caratterizzare la vita degli “eletti”; condotta screditata, che viene evidenziata dall’uso degli aggettivi che ne definiscono la condizione.
Il tema della stàsis ricorre per ben 16 volte nel testo (nella sua forma sostantivale e verbale). Il termine viene abitualmente utilizzato in riferimento alle guerre civili o alle discordie interne, al contrario di pòlemos, che indica la guerra fra i nemici; per gli antichi la stàsis era il male peggiore di una società, una lacerazione mortale del suo corpo; per questo motivo era necessario ricomporre celermente la comunione interna della comunità. Nella missiva la presenza dello Spirito viene costantemente connessa alla concordia ( omònoia) tra gli “eletti”; una concordia più volte cercata e domandata nella grande preghiera finale: «Da’ concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra, come l’hai data ai nostri padri, quando ti invocavano santamente nella fede e nella verità» (c. 61,4).