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Beati noi che, pur non avendo visto, crediamo

L'incredulità di Tommaso

È talmente vera questa affermazione che negarla significa mettere in discussione non solo l’identità dell’uomo ma anche e soprattutto la bontà di Dio, dimenticando quanto il salmo 117 ci invita a cantare: “Celebrate il Signore perché è buono, perché è eterna la sua misericordia”. Questa verità che caratterizza tutta la vita del cristiano è percepibile in modo particolare nel periodo pasquale dove la liturgia raccontandoci le apparizioni del Risorto ci descrive la gioia che provano i discepoli: “I discepoli gioirono al vedere il Signore”.
Il segno della riconoscenza di questo dono pasquale, che l’uomo deve corrispondere, viene ricordato dall’autore della prima lettera di Pietro, nel ribadire ciò che la risurrezione di Cristo ha rigenerato, una speranza viva, un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, conservata nei cieli, sottolinea nello stesso tempo il valore della risposta umana necessaria per conseguire la salvezza delle anime: la fede.
Una fede che viene provata nel fuoco, ma che è più preziosa dell’oro ed è qualificata dalla gioia. La gioia non come sforzo umano, reazione alle prove che possono affliggere la vita, ma come dono di Dio, che nasce dall’esperienza del Risorto che si lascia vedere e che diventa il luogo dove ricevere la pace e la gioia. Questa esperienza che la liturgia ci dà la possibilità di vivere è stata percepita e codificata dalla comunità primitiva e poi dall’autore del quarto vangelo. Nel mettere per iscritto il narratore non usa parole esagerate né racconta gesti eclatanti, ma parole semplici e gesti lineari, così come può essere ordinario e straordinario il venire di Gesù e stare il mezzo a loro e dire: “Pace a voi!”. Ordinario perché continua a fare quello che aveva fatto prima della sua morte, straordinario poiché lo fa dopo aver vinto la morte, si capisce allora la reazione dei discepoli al solo vedere il Signore
La sua risurrezione e la gioia dei discepoli permettono l’invio: “come il Padre ha mandato me anch’io mando voi”, un mandato promesso ma ora compiuto grazie al dono dello Spirito, possibile perché Gesù ha realizzato pienamente il suo mandato: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi” (Gv 15,9); “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Il mandato di Gesù ai discepoli è l’estensione dell’amore che viene dal Padre e passa attraverso il mistero della morte e risurrezione e viene sintetizzato in un istante nella forma vitale “alitò su di loro”. Un mistero di amore che lega strettamente la misericordia di Dio alla comunità che in forza di questo mandato ha il compito di rimettere i peccati. Questa comunità è stata resa credibile dalla visione del Risorto e tale si deve presentare a chi per diversi motivi era, ed è assente: “abbiamo visto il Signore”. La reazione dell’apostolo Tommaso a questa testimonianza è contemporaneamente chiara ed oscura, chiara perché nella sua difficoltà manifesta quella di ogni uomo, oscura poiché non si capisce se la difficoltà riguarda il credere le parole che Gesù aveva detto prima della sua morte, nel credere alla stessa comunità oppure la sua fatica consiste nel ridimensionare l’aspetto complesso della fede riducendola al semplice vedere e toccare.
A questo punto del racconto diventano fondamentali le parole di Gesù che leggono la difficoltà di Tommaso e aprono a una lettura della fede più completa. Quando appare, otto giorno dopo, invita Tommaso a diventare credente ponendo sé stesso come oggetto di fede che l’apostolo aveva cercato. L’apostolo arriva a professare la signoria e la divinità di Gesù solo attraverso la visione, escludendo da questo processo ciò che una settimana prima aveva posto come seconda condizione: “e non metto il mio dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò”. Ma ciò che non deve passare inosservato e che allarga l’invito al lettore è la frase che aggiunge Gesù dopo la professione di fede: “Perché mi hai veduto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!”. Gesù attraverso un processo di purificazione fa un passo ulteriore, svincola la fede anche dal vedere, anzi aggiunge che proprio alla fede che non si lega necessariamente alla visione è associata la beatitudine. A questa fede fa riferimento il redattore del vangelo di Giovanni quando indica la finalità del suo scritto: “Questi segni sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.