«Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5): queste parole aprono l’orizzonte dell’Anno Santo 2025, un cammino spirituale che la diocesi di Reggio Calabria – Bova ha iniziato con una grande partecipazione di popolo sotto la guida del proprio vescovo, monsignor Fortunato Morrone. Di seguito proponiamo l’omelia del presule pronunciata durante la Messa di apertura svolta in Cattedrale, davanti a più di tremila fedeli. Oltre al testo integrale è possibile anche guardare la registrazione dell’omelia pronunciata durante la messa di questa sera.
La speranza cristiana: fondamento e cammino di fede
Carissimi fratelli e sorelle,
«Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5), così papa Francesco nell’incipit della Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 ci offre in sintesi il tema e alcuni orientamenti per vivere la grazia di quest’Anno Santo. Alla lettura attenta e meditata del testo giubilare vi rimando, per entrare con più viva e grata consapevolezza nello spirito dell’Anno Santo, anno speciale di Grazia, occasione offertaci dallo Spirito del Signore come ulteriore opportunità della misericordia di Dio. Per questo, con l’Apostolo Paolo, possiamo sentire ancora una volta l’esortazione “a non accogliere invano la Grazia di Dio…Ecco ora il momento favorevole; ecco, ora il giorno della salvezza!” (cfr “Cor 6,1-2). È l’invito a tradurre il dono in creativi segni di carità per dare speranza a chi dispera.
Una speranza radicata nella promessa di Dio
Per noi cristiani la speranza non è semplicemente un sentire umano, o soltanto il sostegno indispensabile della nostra ragione che spinge l’esistenza verso una realtà futura che deve soddisfare il cuore nella ricerca del di più. Essa non è la ricerca di un oltre irraggiungibile, che si trasforma in miraggio utopico, di un’isola che non c’è, che, più che slancio verso il futuro, costringe l’esistenza a rintanarsi in un passato ormai scomparso, oggi diciamo esposto in un museo.
La speranza cristiana non insegue la ripetizione di un paradiso perduto. In questa visione della vita, che oggi si declina in una sorta di fast food, poiché “di doman non c’è certezza” (Lorenzo De Medici), senza neppure accorgersene viene smarrito il senso del futuro e si rimane incastrati nell’eterno ritorno dell’identico, nel ben noto simbolo del serpente che si morde la coda. Tale concezione della vita condannerebbe l’uomo a gravitare ciclicamente su sé stesso, a soffocare in un meccanismo governato dal fato. Come l’Ulisse omerico, frutto della visione greca del mondo di cui noi calabresi siamo nel midollo eredi (e chi ci potimu fari!), spesso abbiamo come somma aspirazione tornare al punto di partenza.
Abramo e Mosè: pellegrini nella fede
Anche Abramo “nostro padre nella fede” (cfr. Rm 4,11-16) parte, ma, a differenza dell’eroe greco che spera tornare al suo passato, l’Arameo errante (cfr. Dt 26, 5) si dirige verso una terra che non conosce, verso il futuro di Dio, attratto e affidato alla Voce che, dopo averlo chiamato all’esistenza, lo ri-chiama, pronuncia il suo nome (cfr. Gn 12) e gli prospetta un cammino verso una meta, un fine sostenuto da una promessa che ricrea la sua stessa identità: “Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò” (Gen 17, 5) e di conseguenza “In te saranno benedette tutte le genti” (cfr. Gn 12 e 22). Così Mosè, chiamato a far uscire i suoi fratelli dalla terra di schiavitù verso una terra di libertà, si è messo in cammino fidandosi della Voce apparsa nel fuoco che non consuma l’esistenza, ma la riaccende di vita nuova.
Seguire Cristo: un cammino di esodo e conversione
Così e di più la voce del Maestro e Signore Gesù chiama i suoi a seguirlo, a uscire da sé stessi, dal proprio clan famigliare, dalle proprie sicurezze, con una promessa che è benedizione salvifica per tutta l’umanità: “vi farò pescatori di uomini” (cfr. Mt 4,19). La chiamata accende il desiderio di partecipare alla realizzazione del Regno di Dio presente nella persona di Gesù, la vera promessa di Dio per tutti: figli e figlie nel suo Figlio. Una chiamata che comporta un esodo, necessario per vivere: “Chi consegna la sua vita come me, l’avrà in pienezza” (cfr. Mt 10,39). È seguendo Lui che “subito” i primi lasciarono la “casa del proprio padre”, una parte della propria storia, operando una vera spoliazione di sé, e dopo di loro, tanti lungo la storia, come Francesco d’Assisi, si affrettarono a consegnarsi alla Voce del Padre che chiama e invia: è quel “morire in Cristo” battesimale, un distacco penitenziale dalle opere vecchie (cfr. Col 3,5.14; Rm 8,13), che rimette in piedi la nostra vita e la fa ripartire rinnovata nel pellegrinaggio terreno.
Il pellegrinaggio: segno del cammino giubilare
Questa è la condizione per essere generativamente benedizione evangelica per tutti. In questi giorni la memoria del Natale del Dio Bambino ci mostra come il pellegrinaggio sia lo stile di Dio e pertanto sia inscritto nel dna della creatura umana. L’Emmanuele ci insegna a camminare insieme, e come Lui a renderci disponibili all’accoglienza e all’ascolto dei tanti che sono in cammino con noi, al desiderio di farci compagnia ma soprattutto il desiderio di vivere la chiamata alla comunione celebrata nell’Eucaristia, pane del cammino, nutrimento indispensabile per vivere come Gesù, condividendo con tutti quel poco che siamo nella speranza certa che il Signore saprà moltiplicare anche una briciola del nostro pane con chi non ha nulla.
Anche la vita di Maria e Giuseppe, come abbiamo ascoltato dalla Liturgia della Parola, sono un continuo camminare insieme verso la casa del Padre, nella certezza che la Sua paternità è l’Origine, il cuore e la meta di ogni relazione tra gli uomini: “Siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (cfr. 1Gv 3,1). Abbiamo iniziato anche nel simbolo il nostro pellegrinaggio giubilare muovendoci dalla chiesa di sant’Agostino verso la nostra Cattedrale, nel nome di Cristo e dietro a Lui, via che conduce al Padre, verità che ci fa liberi, vita che sconfigge ogni morte che abbruttisce la nostra umanità. «In un mondo nel quale progresso e regresso si intrecciano, la Croce di Cristo rimane l’ancora di salvezza: segno della speranza che non delude perché fondata sull’amore di Dio, misericordioso e fedele» (Papa Francesco, Udienza generale, 21 settembre 2022).
Il pellegrinaggio, “elemento fondamentale di ogni evento giubilare” (Spes non confundit 5) è il segno del cammino di speranza che mette visibilmente insieme i membri del Popolo di Dio pellegrinante dietro la Croce di Cristo, perché attratti dall’Alto del suo Amore crocifisso (cfr. Gv 12,32). Mettersi in cammino in quest’anno giubilare implica un pellegrinaggio interiore, fidandoci di Colui che ci ha chiesto di seguirlo passando per la porta stretta della sua umanità (cfr. Gv 10,9; Mt 7,13) che chiede continua conversione del cuore e della vita, avendo fisso lo sguardo su Gesù (cfr. Eb 12,2), volto misericordioso e benevolo del Padre.
Nel pellegrinaggio della vita cristiana come ben sappiamo, più volte cadiamo e smarriamo la strada perdendo di vista Colui che ci ha dato l’esempio perché lo seguissimo (cfr. 1Pt 2,21). L’anno giubilare è un anno speciale per riconoscere con onestà e umiltà il proprio peccato (cfr. Salmo 50), la confessione chiara di aver mancato il bersaglio, di aver interrotto il cammino credente, di aver vissuto, in parole e opere al di sotto della chiamata battesimale a vivere in Cristo, con Cristo e per Cristo. Ma soprattutto di aver omesso di testimoniare il vero bene, il Vangelo che ci è stato consegnato e che coscientemente e sinceramente abbiamo assunto strada facendo, ciascuno secondo la propria chiamata e la propria responsabilità!
Il sacramento della riconciliazione: cuore del Giubileo
Sarà allora capitato che più che essere martiri-testimoni della bellezza della vita evangelica, abbiamo martirizzato altri: calunnie, violenze fisiche, morali, psicologiche, abusi di potere, compreso quello clericale, che hanno umiliato e ferito in profondità le persone mentre abbruttivano la nostra personale umanità. È solo un esempio per renderci conto che dopo il pentimento dei nostri peccati, il male da noi compiuto fa il suo corso, le ferite rimangono in coloro a cui le abbiamo inflitte. Certo il Signore Gesù ha già pagato per tutti (“Lasciate andare via costoro, prendete me”. Gv 18,8 ) ma non ci solleva dalla nostra responsabilità. Nel Sacramento della Riconciliazione la Chiesa ci chiede di fare penitenza. Di che si tratta?
Nel riconoscere alla luce della Parola il proprio peccato, c’è sempre il rischio di una sottile autogiustificazione, di un accomodamento della Verità alle proprie esigenze, più o meno sincere. Mediando la misericordia di Dio “va’ e non peccare più” (Gv 8,11), noi ministri del sacramento siamo chiamati a offrire al credente riconciliato criteri evangelici di vera conversione, non manipolabili dalla personale coscienza. Non si tratta di pagare un tributo al Dio della misericordia, ma di educare nella fede perché il credente ponga gesti decisamente contrari al male commesso. E se: «permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato” essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è “la nostra “indulgenza”» (Spes non confudit 23).
È dunque la Chiesa che in nome di Cristo e nel ministero dei presbiteri offre un tempo di riconciliazione nel sacramento della confessione. Richiamiamo pertanto la valenza ecclesiale della riconciliazione e del dono dell’indulgenza, per non far scadere il tutto in una ritualità intimistica e privata, che contraddice la dimensione comunitaria del pellegrinaggio che si compie insieme agli altri fratelli e sorelle di fede, membri dell’unico corpo di Cristo, popolo di Dio, anche in questa nostra chiesa.
Un Anno Santo comunitario e sinodale
Il Giubileo diocesano che abbiamo organizzato a marzo nel Consiglio Presbiterale ha questa motivazione di fondo. Spero che tanti possano aderire al pellegrinaggio diocesano a Roma, guidato dal vescovo, e insieme vivere un tempo di riconciliazione e di crescita spirituale.
Sperare da soli e solo per sé stessi è illusione, insieme sì che possiamo sperare di vivere quei beni che fanno respirare l’anima: la fraternità e la solidarietà armi evangeliche per combattere ogni solitudine mortificante.
«L’Anno giubilare potrà essere – allora – un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo» (Spes non confudit 17). Sì, pellegrini di speranza per tutti e con tutti nonostante l’imprevedibilità e le continue sfide che il cammino quotidiano negli ambiti dell’esistenza ci presenta.
Testimoni di speranza nella diocesi di Reggio Calabria – Bova: il luminoso esempio di Mons. Giovanni Ferro
In questo Anno Santo, carissimi, possiamo riconoscere con gioiosa gratitudine che “molteplici segni di speranza” hanno assunto il volto di uomini e di donne che “hanno testimoniato la presenza di Dio” nella nostra arcidiocesi ieri come anche oggi. Tra i tanti testimoni della speranza vogliamo segnalare l’Arcivescovo Mons. Giovanni Ferro: la sua mite e coraggiosa carità pastorale ha infuso consolante speranza in tutti coloro che lo hanno conosciuto e incontrato. La sua spirituale presenza è ancora viva e indelebile nel cuore dei fedeli. In quest’anno giubilare desideriamo chiedere al Signore la grazia e la gioia di vederlo annoverato nella moltitudine dei santi. Sarà premura dei parroci, al termine della Messa domenicale, innalzare al Signore con l’assemblea questa semplice richiesta con la preghiera stampata sull’immaginetta che al temine della celebrazione vi sarà consegnata.
I Testimoni della speranza cristiana con il loro agire credente hanno in realtà operato quello che l’Anno Santo ci propone: mettere in atto la giustizia, “misura minima della carità” (Paolo VI, Discorso ai campesinos 23.8.68) che rende la paterna giustizia di Dio gustabile da tutti, anche nei concreti termini che il “diritto alla terra”, si espliciti nella possibilità che ciascuno, a qualsiasi popolo, cultura e religione appartenga possa ripartire con le stesse possibilità e condizioni di vita umana, proprio quello che il Padre desidera per tutti. Per questo, secondo l’invito della Didaché, “Cerchiamo ogni giorno il volto dei santi” per imitarne l’esempio; speriamo e operiamo anche per coloro che non hanno la forza di alzare lo sguardo oltre il presente, per riaccendere nell’umanità in cammino la fiammella della speranza che non delude. A Maria madre di Gesù, nostra speranza, chiediamo di accompagnarci in quest’Anno Giubilare perché si compiano in noi e in tutti le promesse di Cristo.
* Arcivescovo di Reggio Calabria – Bova
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