Oggi è il compleanno di don Italo Calabrò. Il sacerdote reggino e Venerabile Servo di Dio, per il quale lo scorso anno è stata avviata la fase diocesana per il processo di beatificazione, avrebbe compiuto oggi 99 anni. È nato, infatti, il 26 settembre del 1925. Figura di riferimento della Chiesa reggina-bovese, il suo nome è legato anche alla nascita di Caritas italiana e a tutte le opere-segno parte di una eredità ancor viva e feconda.
Don Italo beato, un anno fa l’avvio della fase diocesana
Il 2024 è stato un anno importante legato al nome di don Italo Calabrò. Lo scorso anno, era esattamente il 10 settembre 2023, ai piedi della venerata Effigie della Madonna della Consolazione, il giorno prima giunta in Cattedrale, veniva aperta ufficialmente l’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio don Italo Calabrò.
Un lavoro che le diverse commissioni ed uffici nominati dalla Diocesi in questi mesi hanno iniziato a svolgere con impegno e dedizione, un servizio finalizzato alla raccolta di scritti e di testimonianze tese a raccontare l’eroicità delle sue virtù che la Chiesa secondo i suoi ordinamenti dovrà eventualmente confermare.
«Un lavoro certosino, coordinato dal postulatore della causa Paolo Villotta, che ha già fatto emergere una copiosa e ricca documentazione di scritti suoi e su di Lui che rappresenteranno per il futuro un prezioso archivio dal quale tutti potranno attingere per approfondire la conoscenza del suo insegnamento, la sua testimonianza di vita in molteplici settori della sua azione pastorale», spiega Mario Nasone del Centro Comunitario Agape fondato proprio da don Italo.
Il suo stile evangelico del «nessuno escluso mai»
Co-fondatore di Caritas italiana, don Italo ha saputo precorrere i tempi e ha colto i segni del cambiamento: la scelta dei poveri e la promozione del volontariato in anni in cui tali scelte non erano prive di ostacoli e incomprensioni; l’impegno per la pace e la non violenza: fu tra i primi in Italia a sostenere e a diffondere l’obiezione di coscienza al servizio militare; l’apporto della Chiesa per il Mezzogiorno. Condannò la mafia indicando alla comunità ecclesiale e civile la via della ferma denuncia.
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S’impegnò per fare uscire dagli istituti quanti più bambini, malati mentali, donne era possibile, promuovendo anche la dimensione della giustizia per la realizzazione di leggi e strutture più umane e adeguate. Lavorò instancabilmente con i giovani, quelli del suo Panella innanzitutto, la scuola dove insegnò per tanti anni.
Durante gli anni della contestazione sessantottina, coinvolgendo studenti e giovani, don Calabrò diede vita al Centro comunitario Agape e alla Piccola opera “Papa Giovanni”, inizialmente collocata nella canonica della sua parrocchia di San Giovanni di Sambatello. Da quei piccoli semi fiorirono poi altre opere-segno: le Comunità d’accoglienza, i centri di riabilitazione, gruppi di volontariato da lui voluti e animati. Don Italo riservò un’attenzione particolare ai dimessi dall’ospedale psichiatrico reggino. L’ultimo suo progetto fu il Centro diurno polivalente per disabili “Tripepi Mariotti”, inaugurato dopo la sua morte.
Da dove nascono le opere-segno di don Italo Calabrò. Il racconto di don Iachino
Sono diverse le opere-segno fondate da don Italo Calabrò sul territorio diocesano di Reggio Calabria – Bova. Monsignor Antonino Iachino così le spiega ad Avvenire di Calabria (ascolta il Podcast): «Le opere che don Italo ha avviato, fin dall’inizio, sono state sempre risposta a problematiche emergenti sul territorio e, soprattutto, alla necessità di impegnarsi per venire incontro alle persone fragili». Non sono opere per sé stessi, prosegue Iachino, «ma sono risposta ai bisogni della gente. Molte di loro sono collegate con la chiusura dell’ospedale psichiatrico, ma altre sono andate incontro agli ultimi della diocesi».
Ricorda ancora il successore di don Italo alla guida della Caritas diocesana: «C’è stato un periodo che il cortile della Curia era raduna della povera gente: molte di queste persone venivano portate in quel cortile da monsignor Ferro che andando in giro nelle parrocchie trovava qualcuno abbandonato e lo portava con sé. E don Italo era il “braccio” che realizzava risposte a queste problematiche emergenti. In questo senso sono state chiamate opere-segno, perché sono segno dell’impegno della Chiesa nei confronti degli emarginati: bisogna intervenire sempre».
L’eredità di don Italo e monsignor Morrone
L’arcivescovo metropolita di Reggio Calabria-Bova, monsignor Fortunato Morrone, ad inizio del suo ministero episcopale in riva allo Stretto ha voluto pregare sulla tomba di don Italo Calabrò, nel piccolo cimitero di San Giovanni di Sambatello, borgo collinare che ha avuto la fortuna di averlo come pastore per moltissimi anni. «Sono venuto a venerare un uomo di Dio. Un uomo che ha legato la sua esistenza a Gesù seguendolo passo passo e ponendosi una domanda nel suo cuore: “Signore cosa vuoi che io faccia?”», aveva detto rivolgendosi ad alcuni fedeli lì radunati in preghiera monsignor Morrone che già nell’omelia di insediamento aveva ricordato l’esempio di don Italo tra i testimoni dell’impegno ecclesiale sul territorio diocesano.
Lo scorso anno, in occasione dell’apertura dell’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e fama di santità di don Italo Calabrò, lo stesso presule aveva spiegato come l’avvio dell’inchiesta serva proprio ad accertare il motivo per il quale «don Italo ha fatto delle scelte», mosse dalla «Santità di Dio che, attraverso lo Spirito di Gesù, ha investito l’esistenza di don Italo». «Noi siamo certi – ancora l’arcivescovo Morrone – che don Italo continui a vivere nella pienezza del Signore».
Le parole del postulatore, Paolo Vilotta: «Il suo grande “miracolo”: ha unito i cuori»
«In un periodo in cui tanto si parla di ponti, ecco: don Italo è stato un vero “ponte d’amore” contro ogni divisione». Paolo Vilotta, postulatore della causa di beatificazione, descrive così il carisma e la “santità” di don Italo Calabrò. Nell’intervista rilasciata ad Avvenire di Calabria a margine dell’avvio della fase diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio, così Vilotta parla di don Italo: «La sua presenza ancora “viva” tra le tante opere-segno da lui realizzate, ma anche nelle persone che lo hanno conosciuto e ne conservano ricordo e insegnamenti, è la cosa che più mi ha colpito della figura di questo sacerdote. Nel mio piccolo “pellegrinaggio” tra i suoi luoghi, sono rimasto colpito dal modo in cui ha operato nella piccola frazione di San Giovanni di Sambatello. Il suo contrastare la ‘ndrangheta con l’arma dell’educazione e del Vangelo, tanto da farne un “martire quotidiano” capace di donare ogni giorno “risurrezione” a tante vite».
Per il postulatore questo è già un “miracolo” compiuto da don Italo: «Nel piccolo cimitero di San Giovanni, dove riposano le sue spoglie, ho vissuto un itinerario di morte. Ho incontrato persone con in volto ancora il segno delle cicatrici. Cicatrici che diventano rose che sbocciano al solo parlare di don Italo. È questo il suo miracolo: l’aver smosso le coscienze, fatto capire che ci sono alternative laddove lo Stato latita. Lo ha fatto mosso da spirito cristiano, ergendosi a ponte tra famiglie contrapposte o in difficoltà. Un vero e proprio ponte d’amore, capace di unire i cuori».
Il ricordo del fratello Corrado: «La nostra casa era sempre aperta agli ultimi»
«Cosa dire su mio fratello? Segnò una svolta nella città di Reggio Calabria». Le parole di Corrado Calabrò, giurista, scrittore e poeta italiano, ma soprattutto fratello di don Italo, meglio rappresentano l’essenza della missione dell’indimenticato sacerdote reggino, amico degli ultimi.
Ricorda ad Avvenire di Calabria, ancora Corrado Calabrò: «In una stagione in cui imperava il motto privato è bello, don Italo – con un gruppo di giovani che raccolse attorno a lui all’Istituto industriale Panella – diede un altro obiettivo: l’attenzione agli altri. Disabili fisici e psichici (soprattutto dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici), anziani abbandonati, ragazze madri, malati di ogni specie di malattia, compreso l’Aids, giovani che il Tribunale dei minorenni gli affidava. Don Italo promosse forme innovative di assistenza. Creò le “case famiglia” e le “case di accoglienza”».
Qualche ricordo personale? «A Natale solitamente gli ospiti delle case famiglia e accoglienza che avevano qualche parente, anche lontano, tornavano nella propria famiglia. Ma c’era qualcuno che non aveva proprio nessuno e allora veniva da noi. Mamma Teresa allungava la tavola ed erano tavolate di venti persone con questi ragazzi che entravano a far parte della nostra famiglia». È da quelle esperienze, ricorda ancora il fratello Corrado, «che è maturato in don Italo il concetto di condivisione. Raccontava monsignor Nervo, cofondatore della Caritas nazionale insieme a don Italo, che Italo è stato un delegato diocesano della Caritas molto attivo, ma che il segno più incisivo da lui lasciato nella Caritas è stato il concetto di “condivisione”».
Ha rinunciato a diventare vescovo per stare accanto agli ultimi
È un’altra pagina della vita di don Italo Calabrò che apprendiamo dalla testimonianza di suo fratello: «Per restare accanto ai suoi assistiti e ai giovani che lo affiancavano nella sua opera, don Italo rinunciò per due volte alla nomina a vescovo».
Don Italo aveva tenuto nascosta questa volontà per molto tempo, addirittura, spiega ancora l’ex presidente dell’Agicom, «Io lo appresi dall’allora Segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Camillo Ruini, in occasione degli incontri tra la delegazione pontificia e quella italiana per l’applicazione del Concordato. Don Italo non ne aveva mai fatto cenno».
Gli ultimi giorni di vita terrena e il suo testamento spirituale
Gli ultimi mesi della vita di don Italo furono contrassegnati dal calvario della malattia. Da aprile a giugno lo consumò velocemente, fino all’ora della croce. All’alba del 16 giugno del 1990 don Italo si ricongiunse con il Signore che aveva fedelmente servito durante la sua esistenza terrena.
«La rivelazione della malattia di mio fratello avvenne a Roma. Il professor Cortesini, chirurgo d’avanguardia, presso il quale lo accompagnai, era imbarazzato. Non riusciva a trovare le parole. “Professore – gli chiese don Italo – ho bisogno di sapere quanto tempo mi resta da vivere!”. Il prof. Cortesini tergiversava, ma don Italo incalzava: “Professore, io devo sapere. Ho le mie opere da sistemare. Mi restano anni, mesi, settimane?”. “Più quest’ultima ipotesi”, rispose alla fine Cortesini. Mia figlia Maria Teresa, che era lì con noi, scoppiò in lacrime. Don Italo abbassò le palpebre e chinò il capo; rimase un momento in raccoglimento. Quando rialzò il capo il suo sguardo era fermo, il suo volto disteso», racconta ancora Corrado.
Nei quarantacinque giorni che seguirono fino alla sua morte, ricorda ancora il fratello, «un flusso continuo di visitatori venne a trovarlo. Don Italo riceveva tutti. Ho visto giovani sacerdoti e suore interrogarlo con lo sguardo, come per rispondere a un’inquietudine interiore. A tutti Italo rivolgeva una parola rasserenante e quando non poté più parlare, un sorriso».
Il giorno del funerale la Cattedrale di Reggio era gremita di gente, poveri soprattutto, che piangevano l’amico premuroso, il fratello sempre vicino, il sacerdote di Cristo che ha saputo donare l’amore del Padre. Ancora il racconto di Corrado Calabrò: «La Cattedrale era gremita, ma anche nelle strade adiacenti, sui marciapiedi, c’era gente assiepata. Ho visto, quando passava il feretro, persone anche più anziane di lui piangere, inginocchiarsi e chiamarlo “padre”».
L’articolo Novantanove anni fa nasceva don Italo Calabrò. Il suo grande “miracolo”: aver unito i cuori proviene da Avvenire di Calabria.