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San Massimiliano Maria Kolbe, il ricordo del primo martire di Auschwitz

Oggi la Chiesa ricorda San Massimiliano Kolbe, l’eroico frate francescano che nel campo di concentramento di Auschwitz, offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, Francesco Gaiowniczek, condannato a morire di fame come rappresaglia per la fuga di un detenuto. Un Santo che nutre una profonda devozione anche in Calabria.

Giovanni Paolo II il 7 giugno 1979, nel corso dell’omelia pronunciata nel campo di concentramento di Brzenzinka, disse: «Vengo qui come pellegrino. Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe e mi sono fermato davanti al muro dello sterminio e sono passato tra le macerie dei forni crematori di Brzezinka. Non potevo non venire qui come Papa. Vengo dunque in questo particolare santuario, nel quale è nato – posso dire – il patrono del nostro difficile secolo».

Chi era – al secolo – Raimondo Kolbe? Nasce l’8 gennaio 1894 a Zdunska-Wola presso Lòdz (Polonia). Vivace ed intelligente, fin da bambino si sente attratto a seguire il Signore e ad amare l’Immacolata. Giovanissimo, entra nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali a Leopoli. La vicenda narrata di seguito perviene a nostra conoscenza grazie alle dichiarazioni fatte dalla madre di Kolbe, dopo aver appreso della morte del figlio e contenute anche all’interno di una lettera del 12 ottobre 1941 che ella stessa indirizzò ai suoi confratelli.

Nel riportarla si fa riferimento alla biografia di A. Ricciardi che a sua volta si è servito della documentazione originale relativa al processo di beatificazione del Kolbe: «Sapevo già da prima, in seguito ad un caso straordinario occorso al Padre Massimiliano negli anni dell’infanzia ch’egli sarebbe morto martire. Solo che non ricordo se la cosa sia avvenuta dopo o prima della sua prima confessione. Una volta non mi era piaciuto in lui qualcosa, e gli dissi – “Raimonduccio, chissà cosa sarà di te?” – Dopo non ci pensai più, ma osservai che il bambino cambiò in modo da non potersi riconoscere. Avevamo un piccolo altare nascosto, presso il quale si recava spesso senza farsi scorgere e vi pregava piangendo. In generale si mostrava al di sopra della sua età infantile per il comportamento, essendo sempre raccolto, serio, e quando pregava era in lacrime. Mi preoccupavo, se non fosse per caso malato, e quindi gli domandai: “Cosa succede in te? E cominciai ad insistere. Tremante per l’emozione e con le lacrime agli occhi mi disse: “Quando mamma mi rimproverasti, pregai molto la Madonna di dirmi che cosa sarebbe successo di me. E in seguito trovandomi in chiesa, la pregai nuovamente; allora mi è apparsa la Madonna, tenendo nelle mani due corone: una bianca, e l’altra rossa. Mi guardava con affetto e mi chiese, se avessi voluto quelle due corone. La bianca significava che avrei perseverato nella purezza, e la rossa che sarei stato un martire. Risposi che le accettavo… allora la Madonna mi guardò dolcemente e scomparve”. Il mutamento straordinario avvenuto nel ragazzo per me attestava la verità della cosa. Ne era sempre compreso, ed in ogni occasione accennava col viso raggiante alla sua desiderata morte di martire. E così io vi ero preparata come la Madonna dopo la profezia di Simeone […]»

Il 4 novembre 1910 inizia il noviziato e prende il nome di Massimiliano. Il 10 novembre 1912 è a Roma per iniziare gli studi alla Gregoriana. Il 16 ottobre 1917 con sei confratelli del Collegio Serafico Internazionale, fonda la Milizia dell’Immacolata. Il 28 aprile 1918 viene ordinato sacerdote nella chiesa Sant’Andrea della Valle. Il 29 luglio 1919 dopo aver conseguito il dottorato in Teologia, ritorna in Polonia. Qui, inizia la sua attività apostolica, dedicandosi alla preparazione e diffusione di giornali e riviste di formazione cristiana.

Nel 1927 fonda Niepokalanòw che significa “Città dell’Immacolata”. Nel 1930 parte per il Giappone dove, imparando da autodidatta la lingua locale, fonda un altro speciale convento (sempre con tipografia) Mugenzai no Sono ossia “Giardino dell’Immacolata”, in periferia di Nagasaki. Nel 1936 rientra in Polonia e si dedica allo sviluppo di Niepokalanow.

Il 17 febbraio 1941 Massimiliano viene arrestato per la seconda (e ultima) volta venendo internato nel Pawiak di Varsavia. In maggio è definitivamente trasferito ad Auschwitz. Qui assieme ai prigionieri, vide la scritta beffarda posta sul cancello d’ingresso Arbeit Macht Frei ovvero Il lavoro fa liberi. Elie Wiesel nel suo celebre libro La notte così descrisse la sua: «Mai dimenticherò quella notte… Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».

Nel caso di Massimiliano, a cui tatuarono il numero 16670, quelle fiamme non solo non consumarono la fede ma anzi la alimentarono. Kolbe ripeteva a tutti «Solo l’Amore crea!»: lavorava, pregava, consolava, assolveva dai peccati, addirittura celebrava, fino alla fine.

A distanza di qualche giorno dall’arrivo di Kolbe – tra il 28 luglio ed il 1 agosto 1941 – accadde un fatto nel blocco 14 che, per la sua gravità, mise in subbuglio l’intero campo di Auschwitz, incastonandosi drammaticamente nella sua storia. Uno dei detenuti, eludendo la severa vigilanza era riuscito a fuggire. L’azione avrebbe messo in moto la tremenda rappresaglia delle autorità del campo. Quando l’appello serale confermò l’assenza di colui che era conosciuto come Klos, “il fornaio di Varsavia”, terrore e angoscia invasero l’animo degli internati mentre cresceva la rabbia delle SS.

Tutti i blocchi furono tenuti per tre ore sull’attenti. Rimandati ai giacigli, quella notte nessuno chiuse occhio per le lacrime ed i tremori causati dalla paura. Vi erano anche alcuni più coraggiosi e padroni di sé, tra questi vi era padre Massimiliano. Udì un giovane prigioniero sussurrare il suo terrore per la decimazione che l’indomani sarebbe avvenuta. Padre Kolbe lo strinse a sé dicendogli: «Non temere, figlio. La morte non è così terribile e in Paradiso ci aspetta l’Immacolata».

L’alba giunse improvvisa. Il consueto appello mattutino aveva lasciato immutata la situazione del giorno precedente. La voce del colonnello Fritsch riecheggiò tagliente e secca per quasi tutto il campo che pareva sprofondato con il mondo nell’attesa di un evento: «Poiché il prigioniero fuggito ieri non è stato ancora ritrovato, dieci di voi andranno a morte».

Il dito del Lagerführer iniziò a “colpire” uno ad uno dieci uomini. Dieci vite troncate semplicemente con un gesto della mano. Bastava un movimento per decidere vita o morte dell’esistenza di una persona. Ad ogni selezione le vittime escono per sempre dalla fila dei compagni del blocco, per raggiungere la fila della morte.

«Dopo la scelta dei dieci prigionieri Padre Massimiliano uscì dalla fila e togliendosi il berretto si mise sull’attenti dinanzi al comandante. Questi, sorpreso, indirizzandosi a padre Massimiliano disse: “Che cosa vuole questo porco polacco?” Padre Massimiliano puntando la mano verso Francesco Gajowniczek, già prescelto per la morte rispose: “Sono un sacerdote cattolico polacco; sono anziano, voglio prendere il suo posto, perché egli ha moglie e figli”. Il comandante, meravigliato parve non riuscire a trovare la forza per parlare. Dopo un momento con un cenno della mano, pronunziando la sola parola “fuori!”, ordinò al Gajowniczek di tornare nella fila lasciata un momento prima. […] Pare incredibile che il comandante Fritsch abbia tolto dal gruppo dei condannati il Gajowniczek ed abbia accettata l’offerta di Padre Kolbe e che non abbia piuttosto condannati tutti e due al bunker della fame.

Di quegli istanti ricorderà: «Potei solo cercare di ringraziarlo con gli occhi. Ero stravolto e facevo fatica a capire cosa stesse succedendo. L’immensità del gesto: io, il condannato, dovevo vivere e qualcun altro, volontariamente e con gioia, aveva offerto la sua vita per me, un estraneo. Era un sogno o era realtà?». Era proprio realtà. Morirà all’età di 94 anni il 13 marzo 1995 dopo aver girato il mondo a raccontare ciò che gli era accaduto, una sorta di resurrezione.

Racconta Bruno Borgowiec: «Trascorsero così due settimane. Nel frattempo i prigionieri morivano uno dopo l’altro; tantoché al termine della terza settimana, ne rimasero soltanto quattro, fra i quali il padre Kolbe. Ciò sembrava alle autorità che si protraesse troppo a lungo; la cella era necessaria per altre vittime. Per questo, un giorno (14 agosto) condussero il dirigente della “Sala degli infermi”, un tedesco, il criminale Boch, il quale fece ad ognuno le iniezioni endovenose di acido velenoso al braccio sinistro. Il padre Kolbe con la preghiera sulle labbra da sé porse il braccio al carnefice. Non potendo resistere a quello che i miei occhi vedevano, e sotto pretesto di dover lavorare in ufficio uscii fuori. Partita la guardia con il carnefice, ritornai nella cella dove trovai padre Massimiliano Kolbe seduto, appoggiato al muro, con gli occhi aperti e la testa chinata sul fianco sinistro (era la sua posizione abituale)». La sua faccia serena e bella era raggiante. Portai insieme con il barbiere del blocco, signor Chlebik da Karwina, il corpo dell’eroe al bagno. Qui fu posto in una cassa e trasportato nella cella mortuaria della prigione. Così morì il sacerdote, l’eroe del campo di Oswiecim, offrendo spontaneamente la sua vita per un padre di famiglia, quieto e tranquillo, pregando fino all’ultimo momento. Nel campo poi, per mesi, ricordarono l’eroico atto del sacerdote. Durante ogni esecuzione veniva ricordato il nome di padre Massimiliano. L’impressione che ho riportata da questo e da altri simili fatti mi rimarrà sempre scolpita nella memoria».

In una breve successiva attestazione il signor Borgowiec aggiunge questo particolare: «Il suo corpo era pulitissimo e luminoso (candido). Chiunque sarebbe stato colpito dalla sua posizione e avrebbe ritenuto trovarsi dinanzi a un santo. Il suo volto splendeva di serenità, a differenza degli altri morti e con i segni della sofferenza sul volto». Così moriva Padre Massimiliano Maria Kolbe, alle 12,50 del 14 agosto 1914, vigilia della Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria. Il suo corpo portato al crematorio, fu bruciato venerdì 15 agosto, le sue ceneri fecondarono la terra e la Chiesa restituendo vita. Tutto era compiuto.

La notizia della sua passione e morte oltrepassò immediatamente il reticolato di Auschwitz fino a raggiungere gli altri campi, balenando come un fulmine sul mondo intero. La sua prima biografia fu scritta già nel 1943 da Piero Chiminelli.

Da allora non si è più smesso di parlare di lui, di scrivere di lui, di pensare a lui in ogni angolo del globo riarso dalla sete di speranza, fede, amore che egli ha saputo incarnare. Beatificato come Confessore della fede da Paolo VI il 17 ottobre 1971 e canonizzato come Martire da Giovanni Paolo II il 10 ottobre 1982, padre Massimiliano Kolbe costituirà non solo un caso speciale per le procedure di beatificazione e canonizzazione, ma sarà anche oggetto delle riflessioni di numerosi pensatori del calibro di Jean Guitton o di autori teatrali come Eugène Ionesco, affascinerà i pontefici da Montini a Wojtiła, Ratzinger e Francesco. Ma soprattutto sarà da modello all’uomo di ogni età, provenienza e condizione che seppur non troverà in nessun luogo né il suo corpo né le sue ceneri potrà percepire l’universalità del suo amore.

Ad Auschwitz, su un bassorilievo, all’ingresso del blocco 11 è scritto: “Homo homini”ovvero “Un uomo per un altro uomo” a memoria del “novello San Francesco” che è stato più forte della morte. È per questo che, all’unisono con Jean Guitton, si può affermare: “Ai miei occhi è il più grande santo del Novecento”.

Padre Pasquale Triulcio, pfi
Docente di Storia della Chiesa

14 Agosto 2023