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Il Buon Pastore è colui che si prende cura del gregge

buon pastore

L’immagine del buon pastore o, come letteralmente si dovrebbe dire, del “bel” pastore, è una delle prime immagini usate dai cristiani per rappresentare Gesù Cristo, un’immagine che vuole innanzitutto ricordare che questa bellezza e bontà derivano non da un fattore fisico esteriore, ma dalla capacità di sacrificare la propria vita per le pecore. Per il popolo d’Israele tale immagine risultava familiare non solo per la frequenza con la quale s’incontravano pastori impegnati notte e giorno a custodire, proteggere e difendere il gregge, ma anche per la sua alta valenza biblica (espressa in Esodo, Ezechiele, Salmi), con noti personaggi quali Mosè, Saul, Davide e altre figure di pastori e guide del popolo ebraico che si erano distinti sempre per il grande amore che li aveva portati a spendere tutta la propria vita per l’altrui salvezza. Oggi per noi cristiani del terzo millennio, nonostante non vediamo più transitare per le nostre strade greggi, la figura del pastore ha sempre il fascino e attrattiva spirituale, forse perché non è venuto mai meno nel popolo di Dio il bisogno di guide sicure, di punti di riferimento, di qualcuno veramente capace di prendersi cura di noi che sia disposto a difenderci, guidarci, correggerci; in fondo è questo che la gente chiede ai preti, è questo che i preti chiedono ai vescovi.

Il Vangelo di oggi ci presenta la figura del pastore bello passando prima attraverso l’immagine della porta, con la quale spiega la differenza di chi la scavalca o entra nel recinto salendo da un’altra parte e chi invece l’attraversa con serenità e libertà. Il primo è un ladro e un brigante; il secondo è il vero pastore, colui che non ha bisogno di ricorrere a imbrogli e sotterfugi, ma sa esprimere una relazione di comunione vitale con le pecore. Entrare-uscire, aprire, chiamare, ascoltare, condurre, camminare, seguire, conoscere, ascoltare, sono tutti verbi scelti dall’evangelista per descrivere la passione del vero pastore per le sue pecore e per tratteggiare lo spirito di chi sa amare profondamente il gregge e sa prendersene cura, tessendo con esso un rapporto stretto e profondo. Mentre riconosciamo che solo Gesù è capace di vivere in pienezza questa passione pastorale dimostrandola con il sacrificio di tutta la sua vita, non possiamo dimenticare che Lui stesso ha voluto scegliere e chiamare semplici uomini che potessero fare le sue veci, fratelli che nonostante lo loro debolezze e fragilità umane potessero essere immagine del pastore bello, nell’impegno di dare anche loro la vita per il gregge affidato.

Avvertiamo davvero la voce del buon pastore che ci chiama per nome? Riusciamo davvero a distinguere la sua voce o preferiamo seguire la voce degli estranei che finiscono inevitabilmente per deluderci? La seguiamo con prontezza e sollecitudine, lasciandoci condurre fuori dai recinti dei nostri pregiudizi? Siamo veramente disposti a passare attraverso Lui, la vera porta, che ci introduce nella vera vita, che ci guida alla salvezza eterna, o preferiamo aprire e varcare le porte di una felicità terrena e mondana, e proprio per questo effimera e fugace? Concludo chiedendo al Signore che si realizzi il motivo vero della sua missione: “perché abbiamo la vita e l’abbiano in abbondanza”. L’abbondanza a cui Gesù si riferisce non è certamente economica o materiale, ma spirituale ed eterna; essa inizia nel momento in cui decidiamo di amarlo e di seguirlo con i fatti e non a parole e raggiungerà la sua pienezza quando vedremo Dio faccia a faccia, quando possederemo la vita eterna, che sarà gioia, luce e pace senza fine.

Monsignor Giacomo D’Anna