La celebrazione inizia ricordando «Tanti i morti nel Mediterraneo, dal 1988 al recente naufragio di Cutro. Sono uomini, donne e bambini in fuga dalla fame, dalla guerra, dalle persecuzioni per le quali in molte parti del mondo ancora si muore. Anche una sola di queste vite perse in mare, in un viaggio di dolore e disperazione, è una sconfitta per tutti che non può lasciarci indifferenti».
Tutti i fedeli, con la loro preghiera, hanno voluto ricordare chi ha trovato solo nella Casa del Padre quell’accoglienza, negata da chi ha chiuso il proprio cuore all’amore fraterno e alla condivisione, per paura ed egoismo. «Queste morti sono un richiamo alla responsabilità – ancora il testo della preghiera – per guardare alla realtà delle migrazioni mettendo sempre in primo piano la vita di ognuno e il pieno rispetto dei diritti umani. Siamo sicuri che “le grandi acque non possono e non debbono spegnere l’amore e la speranza».
Ripercorrendo alcune significative stazioni della Via Crucis, che per l’occasione sono diventati approdi in porti di speranza, la Chiesa reggina ha invocato l’aiuto di Dio perché, attraverso la sequela e l’imitazione del Signore Gesù, non anneghi nel cuore di ognuno e nel cuore del mondo, la compassione e la pace fondata sulla giustizia e sul rispetto di ogni persona e di ogni popolo.
All’inizio della celebrazione sono stati collocati sulla croce esposta dinanzi all’altare alcuni nomi dei migranti morti nel naufragio di Cutro e contemporaneamente è stata accesa ai piedi della croce una candela per ogni vittima.
Questi gli «approdi in porti di speranza» scelti dagli organizzatori: Gesù è condannato a morte (primo approdo); Gesù cade sotto il peso della croce (secondo approdo); Gesù viene aiutato dal Cireneo a portare la croce (terzo approdo); Gesù muore in croce (quarto approdo).
Durante la parte introduttiva, inoltre, ha porto un saluto pieno di commozione un rappresentante della comunità islamica di Reggio Calabria, Hassan El Mazi, che alle preghiere della comunità cattolica ha voluto unire le sue intenzioni, recitando nella sua lingua di origini, una breve formula di intercessione. Non sono mancate, da parte del rappresentante di fede musulmana, parole di ringraziamento nei confronti della arcidiocesi reggina, «voi condividete con noi gioie e dolori, ha detto Hassan, ed io vi ringrazio per quello che fate per noi».
Durante la proclamazione dei quattro approdi sono stati letti quattro brani evangelici: Pilato e Gesù (Gv 19, 13-16); Il dialogo tra Gesù e i discepoli davanti ad un villaggio di samaritani lungo il cammino verso Gerusalemme (Lc 9, 51-56); L’incontro con Simone di Cirene lungo la via verso il Calvario (Lc 23, 26-27) e la morte di Gesù (Gv 19, 28-30).
Tra i momenti più carichi di significato è doveroso annoverare la meditazione sul brano dell’incontro tra Gesù e Simone di Cirene, un brano evocativo, che ha riportato alla mente e agli occhi del cuore l’immane sforzo compiuto in occasione dei tanti sbarchi dai volontari del Coordinamento ecclesiale degli sbarchi. «Nessun passaggio e nessun incontro avvengono mai per caso – recitava il testo della preghiera – ci sono delle situazioni che arrivano all’improvviso nelle quali spesso c’è nascosta l’occasione per diventare uomini e donne migliori, per crescere nell’Amore. Riconoscere la croce dell’altro: mi accomuna in umanità, provoca il mio essere uomo, mi muove a compassione e mi costringe all’azione». Due sono le braccia che compongono la croce: «il punto d’incontro è l’inizio di una relazione tra due mondi (unicità, specificità, cultura, esperienze personali, sogni, aspettative). Impariamo a non avere mai pregiudizi nei confronti di nessuno perché l’altro non sia mai la tentazione di difendermi ma diventi sempre l’occasione per salvarmi dalla mediocrità e dall’isolamento, perché nell’Altro si nasconde teneramente Dio stesso».
Alla fine della celebrazione, prima della benedizione finale, ha preso la parola l’arcivescovo di Reggio Calabria – Bova, monsignor Fortunato Morrone, che ha fortemente voluto la liturgia di questa sera e che, nei giorni scorsi, si è recato a Cutro, località nella quale ha esercitato il suo ministero di parroco fino alla nomina ad arcivescovo della comunità dello Stretto.
«Siamo qui stasera non per parlare di rassegnazione, ma di resurrezione – ha esordito Morrone. La Via Crucis diventa via, via della Luce: anche in quella notte drammatica alcune luci si sono accese, non tutti sono stati salvati, ma quelle luci hanno dato speranza concreta, hanno tirato fuori dal mare quei pochi che sono sopravvissuti».
Quello che stiamo vivendo qui, ha continuato il presule, «non è un rituale, non è uno spettacolo, il rischio è che passato questo drammatico momento non ri-andiamo alla memoria, ma rischiamo di dimenticarci. La vostra presenza conforta la mia fede e mi provoca ad essere anche io, nel mio piccolo, tra coloro che non si voltano dall’altra parte. È facile puntare il dito, con una certa indignazione, contro chi “avrebbe dovuto”. Ma il problema dobbiamo porcelo in profondità: ma noi oggi, siamo disposti a non voltarci dall’altra parte?»
Poi il presule, ringraziando i presenti per la loro adesione all’iniziativa, ha fatto presente che «a volte nelle piccole cose mostriamo un rigurgito di umanità, ma non può accadere solo nelle emergenze: Dio sta dalla parte della nostra umanità, e allora noi dobbiamo onorare la nostra umanità». Quindi, affinché non accada veramente mai più, secondo il presule, «non basta ripetere come una litania “mai più”, ma dobbiamo partire dal dare un’educazione diversa ai nostri figli. Siamo chiamati a responsabilità, la fede è un richiamo alla responsabilità: questa croce rappresenta l’impotenza di Dio davanti ai tanti nostri no».
Il presule, infine, ha concluso consegnando ai presenti quattro verbi che ha ripreso dall’Enciclica Fratelli Tutti di Papa Francesco, nella parte del documento in cui il Papa parla proprio del fenomeno migratorio, «sono verbi che dobbiamo consegnare ai nostri ragazzi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Affinché non accada mai più nella nostra città e nella nostra vita, viviamo con dignità questi verbi e insegniamo a viverli a chi verrà dopo di noi».