Riportiamo di seguito l’omelia integrale dell’arcivescovo Morrone.
Il ricordo di Papa Benedetto, l’omelia integrale dell’arcivescovo Fortunato Morrone
Carissimi fratelli e carissime sorelle,
dopo le celebrazioni dell’ottava di Natale, ci ritroviamo per ringraziare il Signore per il dono di papa Benedetto XVI, vera benedizione per la Chiesa e per la nostra contemporaneità. Sorella morte, ha posto Joseph Ratzinger, definitivamente nelle braccia del Dio di Gesù, da lui confessato e testimoniato come unico Salvatore, unica speranza del mondo. Come ha ricordato papa Francesco ringraziamo il Signore per quest’uomo, gentile e nobile, che negli anni in cui lo Spirito del Signore lo ha posto a capo della Sua Chiesa, ci ha aiutati a crescere con una fede più consapevole e matura, perciò gioiosa e grata. Ci ha guidati con semplicità e chiarezza evangelica, come voce forte e mite della Parola incarnata, germinata del grembo verginale di Maria per opera dello Spirito.
Grazie Signore, per il tuo servo Benedetto XVI che nel tempo della sua vita terrena, come battezzato, come presbitero, teologo, vescovo e papa, è stato per noi quale lampada che arde e risplende (cfr Gv 5, 35) riflesso di Te, Luce vera che illumina ogni uomo e dirada le tenebre ancora presenti nella nostra esistenza.
La sua poliedrica personalità spirituale e intellettuale ha reso ricco e articolato il ministero teologico ed episcopale e fecondo il suo magistero petrino e la sua carità pastorale, segnata da difficoltà e sofferenze di non poco conto, derivanti più dall’interno della chiesa che dall’esterno, così come lui stesso in qualche occasione, con serena pazienza, ebbe modo di segnalare.
Nel 1989, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, su un quotidiano tedesco, commentando il testo di Gv 21, 15-19, rilevava: «Pascere significa amare, ma amare come si vede significa essere disponibili a soffrire, poiché non ci può essere amore senza passare per il crogiuolo della sofferenza, senza l’umiltà e la pazienza del dolore. Dunque chi aspira a un posto di responsabilità nella chiesa deve sapere che con ciò si dichiara pronto a caricarsi di una croce più grande» (in J. Ratzinger, Collaboratori della verità, 16).
Il 7 maggio 2005 nel giorno dell’insediamento sulla cattedra del vescovo di Roma nell’omelia richiamava a sé e insegnava a tutti noi il profilo spirituale di chi è chiamato ad assumere il ministro petrino. «Colui che siede sulla Cattedra di Pietro deve ricordare le parole che il Signore disse a Simon Pietro nell’ora dell’Ultima Cena: “e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli….” (Lc 22, 32). Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le sue proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto».
Credo che queste due citazioni mentre rivelano lo spessore dell’uomo credente e la finezza speculativa del suo acume teologico, offrono luci per interpretare, in coerenza al suo vissuto, il grande e umile gesto della sua rinuncia al soglio pontificio. Consapevolmente lucido, in un momento di grande pressione e di estrema difficoltà per la chiesa universale, con sofferta lealtà al suo biografo Peter Seewald ebbe a dire «Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza». E in altro contesto, ancora parole sue: «un pastore che mietesse solo approvazione, che agisse solo in base al criterio della volontà generale non starebbe certo là dove sta anche il Maestro» (Collaboratori della verità, 16).
Pertanto, ancora nell’omelia dell’insediamento alla cattedra di Pietro: «Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo». E dunque, quando è giunto il momento, obbedendo nella sua coscienza solo a Dio piuttosto che agli uomini, sorprendendo tutti, papa Ratzinger ha saputo mettersi da parte immergendosi nell’apostolato silenzioso della preghiera, per continuare a sostenere il ministero di tutta la Chiesa.
Questo gesto, carissimi, ci dà da pensare: papa Benedetto, ci ha offerto plasticamente un nuovo argomento teologico per pensare il ministero petrino, il ministero episcopale e presbiterale, la stessa ministerialità della Chiesa che per essere generativa è necessario che i suoi membri, contro ogni protagonismo autoreferenziale, diminuiscano, facciano un passo indietro, perché l’unico Maestro e Signore cresca in sapienza nella coscienza credente dei figli e delle figlie di Dio (cfr. Gv 3,30).
La memoria che oggi celebriamo dei santi Basilio Magno e Gregorio nazianzeno, padri della Chiesa che in modo significativo hanno contribuito ad approfondire il mistero di Cristo facendo avanzare la fede della Chiesa, mi offre l’opportunità di sostare, per quanto è consentito in quest’omelia, su un aspetto centrale dell’eredità pastorale e teologica di Benedetto XVI, il rapporto tra fede e ragione che lo ha impegnato per tutta la sua vita di fine e acuto pensatore, premuroso e vigilante pastore del gregge affidatogli dal Pastore supremo delle nostre vite (cfr. 1Pt 5,4).
In un congresso dedicato al decimo anniversario dell’enciclica Fides et ratio, Benedetto annotava: «La passione per la verità ci spinge a rientrare in noi stessi per cogliere nell’uomo interiore il senso profondo della nostra vita. Una vera filosofia dovrà condurre per mano ogni persona e farle scoprire quanto fondamentale sia per la sua stessa dignità conoscere la verità della Rivelazione. Davanti a questa esigenza di senso che non dà tregua fino a quando non sfocia in Gesù Cristo, la Parola di Dio rivela il suo carattere di risposta definitiva».
L’amore per la verità ha segnato la sua esistenza principiata però non da un’esigenza intelletualistica, ma da un avvenimento che ha crismato da cima a fondo la sua umanità, descritta nell’incipit dalla sua grande enciclica Deus Charitas est: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».
Da quest’esperienza determinante che illumina il cammino dell’uomo, appellando ad visione più ampia del concetto di razionalità, mortificato dalla tradizione illuministica ed empirista, Benedetto XVI ha inteso guadagnare quello spazio specificamente etico, quale presupposto ineludibile per salvaguardare l’umano dell’uomo dall’arroganza della stessa ragione che, ubriacata dalle nuove e sempre più raffinate tecniche di dominio sulla creazione, «non accetta più limiti» (auguri natalizi Curia, 22 dicembre 2006). In questa via possiamo leggere più in profondità la Laudato Sì di papa Francesco.
L’invito di papa Ratzinger per: «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» (Regensburg, 12 settembre 2006) si situa tra l’altro in un contesto filosofico segnato da una generale perdita di fiducia nei confronti di una ragione incapace di accedere alla verità, tipica della cosiddetta postmodernità e post-umanesimo che pare portare a compimento l’opera del nichilismo, espressione del neo paganesimo contemporaneo segnato dal relativismo veritativo ed etico, con conseguenze deleterie sul piano culturale, sociale, politico ed economico della comune esistenza umana. Pensiamo soltanto al possibile e dannoso scontro tra culture e religioni diverse (cfr. Spe Salvi 16-26). L’invito del papa a pensare la ragione in più ampio spettro di possibilità, si declina in un’apertura alla vita stessa nella sua complessità e molteplicità, in quella ricchezza del reale che si riflette nel pensare tipicamente umano.
Negli anni del suo pontificato, in coerente continuità con il magistero di Giovanni Paolo II, papa Ratzinger con notevoli provocazioni di alto profilo teoretico poste all’intelligenza dei credenti e non credenti, ha mostrato come un corretto uso della ragione non può che giovare al cammino dei popoli che abitano il villaggio globale e tra i quali la Chiesa è in prima fila per custodirne la loro coesistenza pacifica. Il contributo che la fede offre all’approfondimento della razionalità nelle sue varie forme, ma soprattutto nella sua dignità metafisica ed etica, in continuità con la grande tradizione teologica cattolica, ha procurato nuove sollecitazioni per un nuovo esercizio della ragione all’interno di ogni ambito dell’esistenza umana, dalla religione alla bioetica, dalle scienze naturali alla politica.
Il grande sforzo della predicazione evangelica della Chiesa è stato in fondo quello di mostrare e dimostrare che il Logos creatore, incarnato, crocifisso e risorto è la vera luce che precede, illumina e accompagna il cammino dell’uomo perché questi pervenga a sé stesso nella totalità del suo essere e nella pienezza della sua felicità. Dio in Gesù non è l’antagonista della persona umana: questo è precisamente il sospetto velenoso inoculato dall’antico serpente all’Adam di ogni tempo. E quando si lascia spazio al suo veleno, la verità che brilla sul volto del Crocifisso risorto, speranza dell’uomo, è pervertita fino al punto di pensare che uccidere è sinonimo di rendere culto a Dio.
È la perversione della fede scissa completamente dal ben dell’intelletto (Dante), ad opera di chi vuole a tutti i costi separare ciò che Dio ha unito una volta per sempre in Cristo Gesù. Questa dicotomia tra fede e ragione è stata e può continuare ad essere una delle cause delle guerre di religione e della continua tentazione di fondamentalismo, derivante dalla perdita di ragionevolezza nell’esercizio della fede.
Il 12 settembre 2006 nella famosa e discussa lectio magistralis tenuta davanti al corpo accademico dell’università di Regensgurb, papa Ratzinger fece sue le parole dell’imperatore Manuele II Paleologo: «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» per cui «la violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima». In sostanza la guerra tra i popoli non può trovare ragioni nella religione, tanto più nella fede cristiana. Una guerra giusta è un’ossimoro, nonostante le tutte condizioni di legittimità morale. È un mea culpa alle tante guerre benedette nel passato dalle chiese cristiane. Si vis pacem para pacem.
D’altra parte, in dialogo critico con la modernità Benedetto XVI ammoniva che, in nome della legittima autonomia della ragione, è una contraddizione pretendere di escludere Dio dall’orizzonte di senso proprio degli umani. Tuttavia, per papa Benedetto: «[…] è necessario accogliere le vere conquiste dell’illuminismo, i diritti dell’uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l’autenticità della religione» (Curia 2006). In questa via papa Ratzinger- aveva una chiara visione del suo ministero petrino attualizzato in un contesto storico che lo spingeva, in nome della carità evangelica, a «mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro» (allocuzione non pronunciata all’Università della Sapienza, 17 gennaio 2008).
Un futuro che di fronte al mistero della morte, ogni possibile lume di ragione barcolla e rischia di spegnersi, ma che la fede può reggerne l’urto e attraversarla confidando unicamente nel Dio di Gesù, Amore misericordioso e compassionevole. In verità nell’ora decisiva della morte, ci insegna papa Benedetto, siamo chiamati ad arrenderci fiduciosi a «Colui che conosce anche la via che passa per la valle della morte; Colui che anche sulla strada dell’ultima solitudine, nella quale nessuno può accompagnarmi, cammina con me guidandomi per attraversarla: Egli stesso ha percorso questa strada, è disceso nel regno della morte, l’ha vinta ed è tornato per accompagnare noi ora e darci la certezza che, insieme con Lui, un passaggio lo si trova» (Spe Salvi, 6).
Il 6 febbraio scorso in una sua ultima lettera scriveva: «Ben presto mi troverò di fronte al giudice ultimo della mia vita. Anche se nel guardare indietro alla mia lunga vita posso avere tanto motivo di spavento e paura, sono comunque con l’animo lieto perché confido fermamente che il Signore non è solo il giudice giusto. Ma al contempo l’amico e il fratello che ha già patito egli stesso le mie insufficienze e perciò, in quanto giudice, è al contempo mio avvocato (Paraclito)».
A conclusione facciamo nostro, in forma orante, l’appello formulato presso il Monastero di Santa Scolastica a Subiaco (1 aprile 2005) dall’allora cardinale Ratzinger pensando a san Benedetto, un’invocazione che in realtà delinea i tratti testimoniali della missione compiuta in questo mondo dal credente Joseph Ratzinger.
«Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini».
Per quest’uomo, tuo serve fedele e buono, Signore ti benediciamo.
+ Fortunato Morrone
* Arcivescovo metropolita di Reggio Calabria – Bova