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La vera autorità del sovrano è servire gli ultimi

pantocratore

Poi ci sono i capi, quelli cioè che avevano studiato ogni stratagemma per portare a compimento l’ingiusta condanna del Nazareno e che adesso con tono provocatorio lanciano l’ultima sfida ad autosalvarsi in forza dell’innato umano istinto alla sopravvivenza. Lo stesso fanno gli accaniti e crudeli soldati che, senza pietà, oltre ai fieri e strazianti flagelli carnali, usano parole blasfeme e atteggiamenti arroganti, certamente non meno dolorosi dei primi. Davanti a questo re di burla anche noi restiamo umanamente colpiti, ma soprattutto ammirati perché sappiamo che il nostro re fa tutto per amore, sacrificando la vita e morendo in croce per tutti, non per via della sua debolezza e impotenza, ma per la sua misericordia infinita che lo costituisce così re e sovrano.

Sovranità e potere sono due termini correlativi nel vocabolario umano di ogni tempo e di ogni stato. Ogni sovrano, anche il più democratico, anche il più benvoluto e amato dai sudditi (pensiamo al sontuoso funerale della regina Elisabetta d’Inghilterra recentemente scomparsa), è sovrano perché esercita un potere, al quale tutti devono sottomettersi. Da qui alcuni attributi e segni esteriori che sono inalienabili per chi vuole essere veramente re: la sua casa è in genere uno splendido castello, la sua corte, composta da uomini nobili, saggi e forti, è numerosa e imponente, i suoi abiti sfarzosi, le sue udienze sfolgoranti, le sue udienze in pubblico trionfali: tutto insomma deve essere capace di affascinare e abbagliare il popolo. Che differenza abissale con il re dei cristiani, il quale non possiede nessun segno esteriore che possa rivelare il suo potere, la sua sovranità, la sua forza, tanto che il titolo stesso di re diventa motivo di scherno e di burla per tutti gli avversari.

Come credere a un re che si presenta con segni regali scandalosamente opposti e inaccettabili, per cui indossa come corona un intreccio di spine, come scettro una canna, come abito una povera tunica, come manto regale un drappo di stoffa lacera? Non ebbe alcun segno di grandezza nella sua vita quotidiana, nessun segno di autorità e di potere nella sua missione, a partire dalla sua nascita in una povera e fredda stalla abitata da pastori e riscaldata da animali, e poi vivendo in una umile famiglia, che si sostentava con i modesti guadagni di una oscura bottega del falegname di Nazareth. In seguito nel suo ministero pubblico si presenta come un anonimo rabbì itinerante, senza scuole eleganti o accademie forbite, circondato da pochi, rozzi e ignoranti discepoli.

La sua predicazione risultava per niente esaltate: condivisione e servizio ai poveri, sofferenti e “scartati” di turno; la sua proposta educativa per niente coinvolgente: seguirlo portando una propria croce; infine nessuno mezzo, nessuno strumento, nessun’arma, se non quella della parola infuocata, dell’esempio travolgente, e soprattutto quello dell’amore vero e reale che per Lui ha solo una parola altrettanto concreta e precisa: sacrificio. Questa è una parola non tanto da predicare, quanto da praticare come via nuova e inequivocabile, che ha reso Gesù capace di vincere la tentazione di presentarsi e imporsi come re infallibile e sovrano invincibile, di accettare “volontariamente” di salire sulla croce e di restare lì inchiodato ieri tra le risa e le beffe degli astanti, oggi tra le lodi e le acclamazioni di quanti lo riconoscono e proclamano re universale e re dei re, l’unico in grado di dare ai suoi seguaci pace e salvezza nella vita presente in quella futura.