Come ogni condannato a morte, come ogni malato terminale, pur essendo il Figlio di Dio, non è indifferente al tema della morte, ma lo vive con sofferenza e angoscia, come apparirà dalla sua preghiera nel Getsemani: «Padre se è possibile passi da me questo calice». Eppure Gesù non si sottrae ai maliziosi interlocutori, e con la sapienza che viene dall’alto risponde con chiarezza e determinazione alla spinosa questione.
Gli viene presentata la storia di una donna che aveva sposato un uomo che muore senza lasciare figli. In osservanza alla legge mosaica del levirato, gli subentra come marito il fratello, che ha però la stessa sorte, così gli altri cinque, finché alla fine muore anche la donna. Ed eccoci alla domanda-trabocchetto: nella risurrezione (alla quale per di più loro non credevano) di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna? Nella sua risposta Gesù non nega, anzi riafferma anzitutto la verità sulla risurrezione, superando la rappresentazione materialistica e ironica degli stessi sadducei, facendo comprendere che i figli di questo mondo prendono moglie e marito, ma nella risurrezione non è più così, poiché nell’altra vita si diviene «uguali agli angeli del cielo».
Dobbiamo riconoscere che anche noi a volte pensiamo alla vita eterna come un potenziamento o prolungamento della vita terrena, con le suoi gioie e i suoi dolori, come un luogo dove ricevere tutte le soddisfazioni e successi non avuti nella vita presente, o addirittura il tempo della rivalsa o della vendetta per i torti e le ingiustizie subite. In realtà è un immergersi, finalmente beati, nell’infinito oceano dell’amore di Dio, per cui basterà il ritrovarci insieme a Lui, alla sua presenza, per non avvertire più né pianto, né lutto, né pena alcuna, ma solo gioia eterna.
Come cristiani credenti, ogni domenica professiamo: «Credo la risurrezione e la vita del mondo che verrà». Ma ci crediamo veramente oppure è solo un’espressione verbale più o meno imparata a memoria e recitata e solo ritualmente e formalmente? Così sembrerebbe, se consideriamo il modo di comportarsi piuttosto pagano davanti all’inevitabile perdita dei propri cari. Il che non significa essere insensibili dinanzi alla perdita di un proprio congiunto (non dimentichiamo che anche Gesù pianse per la morte dell’amico Lazzaro). Basterebbe far nostra la parte finale del vangelo di oggi, dove Gesù spiega il motivo perché ci deve essere una vita dopo la morte, con un’espressione lapidaria: «Che poi i morti risuscitano, lo ha indicato lo stesso Mosè a proposito del roveto, quando chiama il Signore: Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui». È il fatto stesso che Dio si leghi agli uomini, come attesta il suo essere “Dio di” qualcuno, dai vari patriarchi ad ognuno di noi, che costituisce la nostra promessa e speranza di vita, perché ci rende partecipi del suo stesso mistero di eternità. Allora chiediamo di credere fermamente quanto professiamo con le labbra e chiediamo di vivere bene la vita presente nell’attesa di godere della luce, della gioia e della pace nella vita che non avrà mai fine.