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La conversione è la strada che porta alla salvezza

Ce lo ricorda lo stesso Luca, con la sua breve ma significativa introduzione al brano odierno, che non possiamo trascurare: “Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Ci sono certamente due atteggiamenti sbagliati nel nostro modo di porci davanti a Dio, entrambi da considerare forti tentazioni diaboliche: la prima appunto è la presunzione della salvezza, il sentirsi cioè sempre migliori degli altri, sempre perfetti e arrivati, per cui se non ci salviamo noi non si salva nessuno, soprattutto se pensiamo che gli altri sono tutti disonesti e dei poco di buono; la seconda invece è l’atteggiamento opposto, forse non meno diffuso dal primo, quello cioè della disperazione della salvezza, il considerare cioè che Dio con tutta la sua buona volontà e potenza non potrà mai salvarci, vista la nostra fragilità e debolezza umana che ci porta a “vedere il bene e approvarlo, ma poi a seguire inesorabilmente il male”.

Il vangelo di oggi sembra calcare la mano su questi errori spirituali, deplorare non solo l’inaccettabile atteggiamento di chi si sente migliore degli altri, ma di chi arriva persino a disprezzare i fratelli che non compirebbero il loro dovere davanti a Dio. Ci viene spontaneo chiederci: come si può dire di credere, amare e pregare Dio e poi disprezzare, mortificare e addirittura odiare il fratello che sbaglia? Eppure è proprio di questo atteggiamento che ci parla la nota parabola del pubblicano e del fariseo.

La differenza tra l’uno e l’altro sta essenzialmente nel differente rapporto con Dio, considerato dal primo quasi un esattore delle tasse, un giudice implacabile al quale dare conto, presentando una sorta di partita doppia della propria coscienza, dove registrare in attivo soprattutto la propria efficienza spirituale e i propri ineccepibili meriti; nel secondo invece non possiamo non notare l’atteggiamento di chi si pone davanti a Dio come dinanzi a un padre buono e comprensivo, al quale offrire solo il proprio cuore pentito, la propria sofferenza nel riconoscersi persona debole e fragile, in cerca non di consensi e premi, ma di misericordia e di perdono, convinto che il Signore “non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva”.

La parabola si conclude con una sentenza inequivocabile: “Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”. Comprendiamo allora che l’unica cosa da chiedere nella nostra preghiera è l’umiltà del cuore, che ci permetterà di riscoprire anche la bellezza e la grandezza del sacramento della riconciliazione, oggi quanto mai incompreso e trascurato. Che fatica infatti fanno molti cattolici, anche quelli più praticanti, a fare una “buona confessione”, ad accostarsi a questo sacramento e toccare con mano l’infinita misericordia del Signore! Papa Francesco non si stanca mai di inculcare in tutti i cristiani una fiducia incondizionata verso un Dio misericordioso, invitando tutti a seguire così l’esempio del pubblicano al tempio. Mi vengono in mente le sue parole sull’argomento, che non possono non toccare il nostro cuore: “Dio è un padre premuroso, attento, pronto ad accogliere qualsiasi persona che muova un passo verso casa. Lui è sempre lì ad attendere, ci sta già aspettando. Nessun peccato umano per quanto grave può prevalere sulla misericordia o limitarla”.

Il senso di tutta la parabola mi sembra sia riassunto in modo mirabile dalla preghiera colletta di oggi: “O Dio, che ascolti la preghiera dell’umile, guarda a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo con fiducia alla tua misericordia, che da peccatori ci rende giusti”.