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Gesù scardina il principio del “do ut des”

 

Certamente quando Gesù parla di umiltà – e sappiamo che questo è uno dei temi più cari al suo cuore – non vuole inculcare quella bassa autostima che porta alla scarsa fiducia in se stessi e nel mondo, che produce una certa difficoltà di individuare obiettivi realistici e coerenti con le proprie aspirazioni e soprattutto provoca la tendenza a dipendere dagli altri o la ricerca continua del consenso altrui, e ancora uno scarso spirito di iniziativa e senso di disponibilità a rischiare, ma vuole ricordarci che davvero l’umiltà è la caratteristica che rende grande il cristiano. Ma come mai questa virtù è da noi così disattesa, nonostante tutti deprezziamo l’atteggiamento delle persone superbe e altezzose? La risposta sta in due le motivazioni di fondo: la prima è che non sempre riusciamo a tenere come nostro unico riferimento di vita lo stile del Signore, che come sappiamo “si è fatto povero per arricchirci della sua povertà” e che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di schiavo”; l’altro motivo è che troppo poco pensiamo e desideriamo di partecipare al banchetto eterno del cielo dove, come ci ricordava Gesù qualche domenica fa (XIX T.O.), “ci farà mettere a tavola e passerà lui stesso a servirci”.

Sappiamo che in tutti i tempi e culture, compresi quelli di Gesù, era ritenuta opera meritevole invitare a pranzo personalità illustri e autorità politiche e militari. Nel mondo ebraico l’attenzione cadeva invece sugli esponenti religiosi, come un rabbino o un dottore della legge; del resto il pranzo stesso rivestiva un carattere quasi religioso, in cui si amava discutere su uno dei temi biblici o della spiritualità mosaica, anche se spesso erano discorsi ampollosi e altisonanti destinati a dar risalto al sapere, all’eloquenza dell’uno o dell’altro partecipante, e naturalmente si faceva a gara a chi potesse emergere e fare bella figura.

Nel nostro caso sembra che l’ospite d’onore era proprio il nuovo rabbino galileo, ma non è difficile credere che l’invito fosse anche alquanto capzioso, in quanto i commensali stavano in agguato per coglierlo in fallo, per qualche sua trasgressione a qualcuna delle minuziose prescrizioni del rituale. Non a caso Luca sottolinea che “essi stavano ad osservarlo”. Ma anche Gesù li osserva e non può non notare un atteggiamento che lo infastidisce profondamente: la corsa degli invitati ai primi posti, a quelli più in vista per ricevere onori e complimenti e un più abbondante trattamento nelle diverse portate dei prelibati cibi. Gesù coglie l’occasione per impartire una buona lezione di umiltà, e per farlo sceglie come sempre di usare il linguaggio parabolico, un esempio pratico dal quale si possa ricavare un insegnamento morale ed educativo, ma anche spirituale e religioso. Fatto sta che a loro, come a noi, questo sembra alquanto desueto, se non assurdo: occupare gli ultimi posti nella speranza che qualcuno ci inviti a passare avanti, come pure invitare ai nostri banchetti non “gli amici, i parenti o i ricchi vicini”. E per quale motivo? Gesù è chiaro e diretto nella motivazione: i primi possono ricambiare, mentre i secondi non possono farlo per via delle loro condizioni socio-economiche. Questo per noi significa scardinare il vecchio ma ben radicato principio del “do ut des”, ti do se tu mi dai.

Non ci resta che concludere con la bella preghiera dell’odierna colletta, che ci fa chiedere “di onorare la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, per essere accolti alla mensa del suo regno”. Non dunque semplice gesto di cortesia o di attività benefica e caritativa, ma impegno di far proprio lo stile preferito da Dio che “abbatte i potenti dai troni e innalza gli umili”.