Siamo nell’ultima notte di Gesù, la notte del tradimento, dell’abbandono, dell’agonia. Il Vangelo inizia proprio sottolineando che Giuda uscì dal cenacolo per andare dai sacerdoti del tempio e consegnare Gesù nelle loro mani. Dopo il tradimento di Giuda, si racconterà anche quello di Pietro, che non esiterà a rinnegare Cristo, giurando e spergiurando di non averlo mai conosciuto. E tra i due tradimenti Giovanni inserisce il discorso sull’amore cristiano.
Gesù con i suoi discepoli celebra la Pasqua ebraica e in quel contesto, che doveva essere gioioso e festoso, parla della sua triste e inesorabile fine. Ha già lavato i piedi, come segno visibile di amore e di servizio, ha spezzato il pane della carità e condiviso il calice del vino dell’amarezza e del sacrificio, ma con la sofferenza di un condannato a morte annuncia che “è giunta l’ora”. L’ora della sofferenza e della prova, l’ora suprema della sua vita, l’ora dell’agonia, della lotta tra il bene e il male, tra l’amore e l’odio, tra l’essere fedeli alla volontà del Padre o alle proprie umane decisioni. Il cuore di Gesù è colmo di tristezza e di delusione, ma anche di decisione e determinazione verso quello che Egli compirà per la salvezza del mondo. Ed è in questo contesto che Gesù parla di glorificazione e di comandamento nuovo, due elementi che potrebbero considerarsi apparentemente contraddittori, ma che invece si riveleranno complementari ed essenziali.
Cosa significa il termine glorificazione? Nel vocabolario umano è l’atto che esalta, che celebra, che dà lode e onore ad un personaggio, il quale raggiunge il suo massimo livello di successo, l’apoteosi e il trionfo di tutta la vita. Per Gesù, alla luce dei fatti pasquali in particolare, non sarà così: la sua gloria viene essenzialmente dall’amore che si manifesta in un modo scandaloso rispetto alla mentalità mondana, poiché passa attraverso l’abbassamento, la croce e persino la morte. Cristianamente glorificare significa essenzialmente avere tanto amore come quello di Cristo, che ama il Padre, al quale non vuole dare un diniego alla sua volontà, accettando volontariamente di “consegnare” tutta la sua vita per la salvezza del mondo, e che ama tutti gli uomini, per i quali non esiterà a subire ogni forma di prova e di sofferenza e a versare il proprio sangue “usque ad mortem”.
Nel contesto del discorso sulla sua glorificazione, arriva la consegna delle ultime volontà di Gesù verso quanti con infinita tenerezza Egli chiama “figlioli”: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri”. Ma perché Gesù parla di amore come un comandamento? E perché lo definisce nuovo? “Al cuore non si comanda”, diceva un vecchio adagio; dunque l’amore non può essere imposto, ma deve essere un atto libero e spontaneo del cuore. Gesù parla di comandamento per ricordare agli ebrei ieri e a noi cristiani oggi che la salvezza non dipende dalle leggi da seguire, dai doveri da assolvere, dai sacrifici più grandi da osservare, ma da un unico grande comandamento, da una legge suprema, quella appunto di amare. Allora la vita va intesa come un servizio d’amore. E in cosa consiste allora la novità? Nel vivere l’amare come ha fatto Gesù, ossia amando per primi, amando senza alcun nostro merito, amando fino alla fine. Da qui il segreto della vera testimonianza di vita cristiana: “Da questo sapranno che siete miei discepoli”. Come sarebbero diversi la Chiesa e il mondo se dopo duemila anni di proclamazione del comandamento dell’amore avessimo fatto di esso, più che un tema di predicazione, il nostro primario impegno per una vera testimonianza! Sappiamo che “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”, ossia su come abbiamo amato, su chi abbiamo amato, su quanto abbiamo amato. Chiediamo allo Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio, di illuminare le nostre menti e di infiammare i nostri cuori con il fuoco della vera carità, affinché come Gesù possiamo amare, servire e salvare il mondo intero.