Giovanni è colui che ci ha insegnato cosa fare affinché il Natale non ci colga distratti e impreparati; Maria è l’esempio concreto di come accogliere e vivere il mistero dell’Incarnazione. Infatti nessuno come lei è veramente Maestra, perché nessuno come lei ha vissuto ciò che insegna. Tutto in Maria ci parla di fede matura e gioiosa e di amore fecondo e generativo. Lo fa nella sua triplice veste, quella indicataci direttamente dagli stessi vangeli, che ce la presentano vergine, madre e serva del Signore. Un grande insegnamento che ci mostra come nessuno può accogliere Dio nella propria vita, se non in uno stile di assoluta verginità (intesa come totale dedizione al Signore), di generosa maternità (amore generativo di buoni frutti, e dunque mai sterile e infecondo), e di gioiosa disponibilità al servizio (Maria non disdegna di andare in fretta a mettersi al servizio dell’anziana cugina Elisabetta, insegnandoci così che non ci può essere fede autentica in Dio senza impegno concreto di servizio ai fratelli). Ecco allora gli elementi necessari per vivere il Natale cristiano, generosa dedizione al Signore (fede), vicinanza e tenerezza verso i fratelli in difficoltà (carità), gioiosa sollecitudine nel rimboccarsi le maniche per essere ammessi, scriveva don Tonino Bello, “alla scuola di quel diaconato permanente di cui Maria è stata impareggiabile maestra” (servizio).
Per rivelarci tutto questo, il vangelo della quarta domenica ci fa leggere il brano della visitazione, ricchissimo di significati spirituali. Ne richiamiamo solo alcuni. Anzitutto il Vangelo vuole attribuire a Maria un ruolo particolare, un titolo squisitamente biblico, quello di “arca della nuova Alleanza”. Infatti il viaggio di Maria di circa quatto giorni da Nazareth alla Giudea riflette il viaggio dell’arca dell’alleanza verso la città di Gerusalemme (cfr. 1 Cron. 13,1-14). Entrambe i viaggi sono descritti mediante un parallelismo che li rende molto simili: lo stupore di Davide e lo suppore di Elisabetta, la permanenza dell’arca nella casa dell’uomo benedetto da Dio (Obed-Edom) per tre mesi e la permanenza di Maria presso la casa di Elisabetta per lo stesso periodo (circa tre mesi). Maria è l’arca della nuova alleanza che contiene, porta in sé, non più fredde tavole di pietra, ma il Figlio di Dio, vivo e vero. Per questo Elisabetta esulta di gioia. Il testo originale richiama piuttosto una sorta di danza di Giovanni dentro il grembo materno, così come gli ebrei danzano mentre l’arca veniva trasportata. Tutta la pagina sembra avere come protagonista la gioia, l’esultanza, richiamata già dal primo versetto, che ricorda, almeno nel testo latino, non tanto “la fretta”, quanto il procedere in modo allegro, sicuro, addirittura baldanzoso, proprio per esprimere la gioia e l’esultanza per le grandi opere che Dio ha compiuto e sta ancora compiendo. Potremmo dire che la fretta che spinge Maria verso la cugina Elisabetta è la gioia della carità che, come dirà San Paolo, ci spinge, “urget nos”. Altro che il nostro attivismo, il correre di qua e di là che brucia le giornate e consuma le vite, nel frenetico susseguirsi delle mille cose da fare! Ecco perché non impareremo mai, se non alla scuola di Maria, a contemperare l’azione e la contemplazione, la preghiera e il servizio, la fede in Dio e la carità per i fratelli.
L’ultima parola è benedizione. È con il termine benedetta/benedetto che Elisabetta saluta la sua gradita ospite e Colui che Maria porta in grembo. Benedire non è soltanto dire bene degli altri, rispetto al nostro sparlare e criticare, ma è augurare il bene, desiderare il bene, vedere già il bene che si sta realizzando nella vita dei fratelli. Impariamo allora a benedire non a maledire, a portare buone nove, non a mandare “male nove”. Un semplice, ma non inutile impegno, per il prossimo Natale!