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Settimana Santa, la riflessione biblica: da Isaia ai Vangeli, la sofferenza di Dio è narrata nelle Sacre Scritture

Se l’esordio del quarto Canto proclama il successo della sua missione, in 52,14 l’aspetto sfigurato del Servo suscita lo sbigottimento dei molti; tale visione induce i re al rispetto e alla riverenza («chiuderanno la bocca», 52,15) come frutto di un processo di riflessione sulla sorte dell’inviato di Dio, che prima non avevano considerato.
A partire da 53,1 inizia il racconto di un gruppo anonimo, che probabilmente dà voce alla coscienza religiosa di Israele, testimone della umiliazione e della esaltazione del nostro personaggio. I versetti 2-9 sono incentrati sul primo aspetto. I versetti 2-3 rievocano i fatti della vita del Servo: la nascita, la crescita, cui si allude mediante le immagini del virgulto e della radice, la negazione della bellezza, il disprezzo e la disistima. I versetti 4-6 forniscono il senso di questi fatti: il Servo ha portato i peccati degli altri e la punizione che ne è derivata, in virtù di una precisa disposizione divina. Il suo dolore suscita il pentimento e la confessione delle colpe da parte di chi parla, in quanto riconosce nella sorte di colui che soffre le conseguenze del proprio peccato. La sofferenza vicaria del Servo produce la salvezza, espressa in termini di guarigione («per le sue piaghe noi siamo stati guariti», verso 5), che implica la remissione dei peccati e l’abolizione della pena che la comunità doveva scontare e che invece egli stesso ha espiato. Viene poi presentato Yhwh come il fautore della missione del Servo e, attraverso la metafora del gregge disperso, si lascia intravedere la comunione che quest’opera ristabilirà all’interno di un popolo che appariva essere disgregato. Ai versetti 7-9 prosegue il racconto, interrotto dalla confessione dei peccati. Due immagini tratte anch’esse dal mondo pastorale, l’agnello condotto al macello e la pecora muta di fronte ai tosatori, evidenziano come la sofferenza del Servo sia la conseguenza di una violenza inferta da altri. Sono poi evocate la morte e la sepoltura.
Anche nell’ultima tappa del suo itinerario l’inviato di Dio subisce gli effetti di una sorte iniqua perché, da innocente qual era in vita, è esposto, persino da morto, al contatto con tutti i colpevoli.
Egli ha sperimentato il male di questo mondo in tutta la sua profondità e niente gli è stato risparmiato poiché ha assunto su di sé ogni elemento negativo dell’esperienza umana, non accettando quindi passivamente la propria missione, ma vivendola nella più attiva e totale docilità alla volontà di Dio. Grazie a questa fedeltà, il cammino dell’Unto non è una maledizione, ma è promessa e compimento della salvezza. La prospettiva salvifica, infatti, è evidente nel cammino di esaltazione descritto ai versetti 1012. Tale idea è espressa dal motivo della discendenza, ampliato dalle immagini dell’eredità e del bottino, che il Servo vedrà per il fatto che ha accettato la morte umiliante e violenta.
Chiaramente il Servo con la sua umiliazione propizia la salvezza delle genti, oltre che quella della comunità e la propria: l’itinerario dell’Unto, allora, appare come un percorso universale. Poiché il Servo è “luce delle nazioni”, con il compito di portare la salvezza di Yhwh fino alle estremità della terra, si comprende come il suo abbassamento conferisca una prospettiva di senso ad ogni umiliazione, la quale, come assunzione dell’esperienza della mortalità, diventa un percorso di purificazione per chi la sperimenta colpevolmente; Il giusto, invece, ne fa subito un dono d’amore per gli altri.
Tutti i cammini di abbassamento contengono dunque una promessa di salvezza. La passione di Cristo porterà a compimento questa costante della storia umana, conferendo ad ogni umiliazione personale, specialmente se vissuta nell’offerta al Signore, il valore di una piena e fruttuosa partecipazione alla Pasqua di Gesù.