Il racconto delle tentazioni della prima domenica ci presenta il volto umano del Signore, disposto ad essere uguale a noi in tutto fuorché nel peccato; nella seconda Domenica ci viene proposta la sua “signoria” in quanto figlio di Dio. L’intendimento del Signore stesso è proprio che nessuno resti scandalizzato dall’umanità di Gesù di Nazareth, espressione di comune fragilità e debolezza, ricordando al contempo che l’uomo Gesù, che prima vediamo tentato nel deserto dal demonio, è lo stesso Signore che si trasfigura. Quale il senso di tale evento? Egli vuole incoraggiare i suoi discepoli in vista della passione e morte in croce, svelando la sua vera identità e anticipando così la sua gloria futura di Re del cielo e della terra e Signore universale. Anche oggi molti cristiani si fanno un’idea sbagliata di Gesù Cristo; c’è infatti chi lo considera un uomo potente, altri un guaritore, altri un profeta, altri un rivoluzionario, altri quasi una sorta di “superman” dai poteri straordinari che gli permetteranno persino di vincere e superare la morte. Gesù non ha paura invece di mostrarsi quale realmente è, e quale noi veramente dobbiamo riconoscere e professare: il Figlio di Dio venuto sulla terra (mistero dell’incarnazione) per la nostra salvezza e che per questo è morto e risorto (mistero pasquale). Solo un riconoscimento nella fede di ciò che Gesù è realmente può portare nel cuore dei credenti la luce e la gioia che tutti desideriamo. Ed è proprio di luce e di gioia che ci parla il racconto odierno della trasfigurazione. Essa illumina e rischiara i discepoli sul monte quando lo ammirano trasfigurato, splendente, raggiante di un grande bagliore, mai visto, ineguagliabile, irraggiungibile. Da qui il senso di vero gaudio espresso dal desiderio degli stessi discepoli di non scendere più dal monte, ma di trattenersi là perché “è troppo bello per noi restare qui”.
Il riconoscimento della vera identità di Gesù, vero Dio e vero uomo, comporta, oltre ad un frutto di gioia per chi ha lo conosciuto e incontrato, anche una grande responsabilità, un forte impegno, che nel Vangelo di oggi viene espresso con chiarezza dalla parole: “questi è il Figlio mio l’amato, ascoltatelo!”. Ma che significa ascoltarlo? Perché dovremmo ascoltarlo? Comprendiamo che “ascoltare” è ben diverso dal semplice “sentire”, poiché l’ascolto richiedere il mettere in pratica quanto udito con le orecchie. L’ascolto dunque è innanzitutto vivere, ed è proprio per questo che esso rappresenta il vero senso dell’essere “discepolo del Signore”. L’ambizione del discepolo non è di essere originale, eccentrico, straordinario, ma fidarsi di Cristo e mettere in pratica quanto ascoltato. Questo termine è l’essenza stessa della fede che richiama proprio obbedienza, “ab-audire”, ossia la volontà di farsi servo della verità, in continuo e costante ascolto. Se l’ascolto non è fatto di obbedienza, conversione e speranza, non è più fede sincera in Dio, ma ricerca di una propria autoaffermazione e gratificazione spirituale, che naturalmente lascia il tempo che trova. Invece la fede basata sull’ascolto diventa capacità di decidere, di scegliere, di agire secondo il cuore di Dio. Se perseveriamo in un ascolto paziente e fedele, la nostra vita comincia ad illuminarsi di una luce nuova. Cominciamo a vedere tutto con maggiore chiarezza, scopriamo una forza nuova per affrontare le difficoltà e i problemi della vita di ogni giorno. Solo un ascolto autentico e sincero ci permetterà dunque di riconoscere che Gesù è quel Signore che noi crediamo e affermiamo vero Dio e vero uomo e, in quanto tale, l’unico capace di comprendere le nostre debolezze e fragilità umane, ma nello stesso tempo capace di trasfiguraci, di donarci cioè sempre nuova forza per dare buona testimonianza d’amore, credibile ed efficace per tutti.