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Nella guarigione che compie Gesù c’è l’amore di Dio

Un racconto che non può non riallacciarci alla tradizione veterotestamentaria nella quale, secondo al legge di Mosè, un lebbroso, più che un semplice ammalato, era un “segnato” da Dio, un peccatore “toccato” dal castigo del Signore. Da qui tutte le conseguenze rituali che la legge sacerdotale imponeva. Innanzitutto quella di presentarsi al sacerdote, che avrebbe accertato e certificato l’esistenza del male e che lo avrebbe escluso dalla comunità, ripudiandolo e isolandolo dai fratelli e dunque, in quanto punito da Dio, da evitare assolutamente. Un vero e proprio dramma per un malato di lebbra, che oltre a fare i conti con le conseguenze corporali devastanti, doveva subire questa sorta di alienazione della comunità. Un cumulo di disperazione fisica, psicologica e spirituale: era il vero “abbandonato da Dio e dagli uomini”, i quali non potevano non considerare che quella malattia non era altro che la conseguenza del peccato del soggetto; avvicinarsi al lebbroso avrebbe significato farsi complici e corresponsabili del suo peccato. Significativo il fatto che Gesù, dopo aver operato la guarigione, rimanda il lebbroso al sacerdote e lo invita a “offrire” quanto stabilito da Mose per la purificazione “a testimonianza per loro”, ossia quale prova che Dio agiva con potenza per mezzo dell’Uomo di Galilea.
Ci colpisce la fede del lebbroso. “Se vuoi puoi guarirmi”: per lui non ci sono dubbi, tutto dipende dalla volontà di Dio, al quale nulla è impossibile. Ma nello stesso tempo è la fede del richiedente che “smuove” la potenza di Dio, quasi che l’onnipotenza di Dio si muove commuove davanti a una fede solida e forte che può spostare persino le montagne. Quattro verbi ci parlano di questa potenza di Dio irresistibile e irrefrenabile davanti alla fede dell’uomo: si commuove, stende la mano, lo tocca, lo guarisce.
Si commuove è l’atteggiamento di chi vede e cum-patisce la sofferenza altrui, si fa cioè compagno nella sofferenza dell’altro; tale commozione non è superficiale e passeggiera, ma tocca il profondo dell’esistenza, letteralmente fino alle viscere, la parte più intima e profonda della nostra vita.
Stende la mano. Un gesto antichissimo nella Chiesa, presente già nelle prime comunità, quando gli apostoli stendevano le mani per guarire i malati e consacrare i discepoli. Più semplicemente un segno che ci può far riflettere su chi stende la mano pe prendere o per rubare, e chi invece la allunga per donare guarigione, salute e forza.
Lo toccò. E certamente uno dei verbi preferiti da papa Francesco che più volte ha ricordato che “la condizione dei poveri obbliga a non prendere alcuna distanza dal Corpo del Signore che soffre in loro. Siamo chiamati, piuttosto, a toccare la sua carne per comprometterci in prima persona in un servizio che è autentica evangelizzazione. Bisogna toccare con mano le sofferenze dei fratelli se li vogliamo comprendere, ma soprattutto se li vogliamo guarire e liberare”.
Lo guarisce. Ormai abbiamo compreso che per il Vangelo di Gesù c’è una guarigione fisica che tocca il corpo della persona e una guarigione spirituale che può essere operata solo con la forza dell’amore. La prima è necessaria, utile e preziosa; la seconda invece è indispensabile, essenziale e vitale.
Il Vangelo si conclude con una sorta di disobbedienza e disattenzione del comando di Gesù, che aveva chiesto al lebbroso di non dire a nessuno ciò che era successo, di non parlare con alcuno della guarigione. “Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in città”. Meno male che non lo doveva sapere nessuno! Ma meglio così: questo significa che “charitas Christi urget nos” (2Cor 5,14), che il bene, l’amore non si possono trattenere e contenere, ma si devono necessariamente diffondere, divulgare e comunicare. Facciamoci anche noi oggi divulgatori appassionati e annunciatori dell’eccedenza dell’amore e della misericordia di Dio.