Le restrizioni in atto non hanno reso possibile il consueto scambio di auguri in episcopio, pertanto l’occasione per festeggiare col presule è stata la santa messa trasmessa in streaming sui canali digitali della diocesi proprio per raggiungere i tanti fedeli che hanno manifestato la volontà di abbracciare, seppur virtualmente, l’arcivescovo. Subito dopo la santa messa, lo abbiamo intervistato.
Un compleanno festeggiato nella Comunione. Cosa dice ai sacerdoti che erano con lei, due giorni fa, in Cattedrale?
Centralizzate la vostra vita in Gesù Cristo. Alla fine, ciò che rimane è solo il rapporto col Signore. Arrivato a 75 anni, pongo il mio sguardo a ritroso, ringraziando Dio di essere arrivato a quest’età in buone condizioni di salute. Penso che, quello che ti rimane della vita, aldilà del bilancio delle cose buone o degli errori fatto, è Gesù Cristo che ha dato senso alla propria esistenza. Adesso capisco e apprezzo le parole di San Paolo: «So a chi ho dato fiducia». E questo è l’invito che faccio ai sacerdoti: tutto il resto passa, resta solo l’amore di Dio.
Restando sul tema della Comunione, che consigli dà alla Chiesa reggina in tal senso?
Sappiate apprezzare gli altri per quello che hanno, soprattutto quando gli altri – quello che hanno – manca a noi. Bisogna riconoscere le prerogative dell’altro, così si realizza un vero clima di Comunione. Di scambio reciproco. Uno dei valori importanti della vita è la possibilità di dialogo; solo così si può riconoscere la pienezza delle proprie capacità, ma al contempo sapersi leggere come “indigente”, cioè dirsi con coraggio: «Io non ho quelle caratteristiche». Quando sorge questa onestà, allora davvero si realizza una collaborazione autentica.
Un compleanno particolare, anche perché si è svolto durante il tempo della pandemia da Coronavirus. Cosa pensa di questa situazione sotto il profilo pastorale?
Certamente la realtà in cui viviamo non sarà più come prima. Questo tempo, infatti, ci ha fatto sperimentare alcuni aspetti che possono sembrare banali, ma che in realtà rappresentano un vero e proprio punto di svolta. Penso agli incontri sulle piattaforme telematiche: si può fare apostolato anche in questo modo. Quando ritornerò nella comunità dei frati, una volta lasciato l’episcopato a Reggio Calabria, mi sono reso disponibile a un lavoro di formazione «a distanza»: questo Covid–19 ci ha permesso di comprendere come si può arrivare a chiunque, in contemporanea. Certo, questo non deve toglierci la bellezza dell’incontro: è un’esigenza che non deve essere trascurata. Ci vuole sicuramente un buon uso di equilibrio tra i mezzi di comunicazione e la forza della Comunione. Un altro “effetto” del Coronavirus è la grande riflessione che c’è in atto sul senso della vita: bisogna ripartire, specie sui nostri territori dove abbiamo un cristianesimo di tradizione, su questa domanda a cui solo Gesù Cristo può essere l’unica risposta. Se la Chiesa sarà capace di intercettare questa possibilità, si aprirà un corso del tutto nuovo, specialmente tra i più giovani.
La ripartenza del post–Covid può essere paragonata agli anni del dopoguerra che lei visse in prima persona?
Rispetto al dopoguerra, questo post–pandemia è completamente diverso. Quì ci troviamo in una situazione in cui la generazione che sta traghettando ha assaporato un tenore di vita che adesso le viene meno. I sacrifici che verrano imposti saranno sempre paragonati a prima, per questo credo che la ripartenza non sarà facile. Quella generazione che usciva dalla seconda guerra mondiale era già provata economicamente; dalle nostre parti ancora non era arrivata la rivoluzione industriale. Noi ragazzi, d’estate, andavamo scalzi per le strade. Ricordo benissimo che mia madre andava alla bottega a comprare con il famoso libretto “a credito”. A quella generazione, il boom economico ha dato grandi passi di conquista misurati con gli anni precedenti che erano di miseria. Oggi, questo salto in avanti, non è possibile: se non affrontiamo il futuro con una mentalità meno consumistica a cui ci sta invitando il Papa, non penso che ci sarà un domani così lieto.
Cosa bisogna desiderare?
Occorre guardare con occhi nuovi. Impostare un’economia diversa vuol dire salvare davvero il mondo. Leggiamo con più attenzione l’invito di Francesco: dobbiamo puntare all’ecologia integrale. Il Coronavirus ha messo in evidenza la fragilità dei rapporti e la grande solitudine esistenziale dell’uomo. La dignità della persona non può essere condizionata dall’economia delle banche.
Continuando il percorso storico. Cosa ricorda del Concilio Vaticano II?
Per me è stato un periodo bellissimo della mia vita; posso dire di aver vissuto il Concilio fino in fondo frequentando, dal 1963, l’università proprio a Roma. Immancabile la lettura tutti i giorni del resoconto dei lavori conciliari sull’Osservatore Romano. Ho avuto anche la fortuna di conoscere di persona, poi, le grandi figure ecclesiali del tempo. Quel tempo ci ha fatto percepire l’universalità e l’unità della Chiesa. Un’esperienza che ci ha consegnato dei documenti, come la «Gaudium et Spes», che è stata discussa proprio durante i miei anni romani.
A quale periodo della vita di San Francesco di Paola paragonerebbe il tempo attuale?
Sto lavorando a un volume dal titolo “San Francesco e l’Islam”. Rileggendo alcuni testi, soprattutto delle lettere di San Francesco, vedo la sua attenzione – in tempi diversi da quelli attuali – su un’Europa che doveva affrontare il problema dell’incontro con l’Islam. Sollecitò il Papa e gli stati europei a non sottovalutare questo aspetto. Oggi posso dire che quel sentimento di Francesco è fortemente contemporaneo e parla di integrazione: un tempo profetico che sento davvero molto vicino a quello attuale. Mio e del mondo.
Pubblicato su L’Avvenire di Calabria del 29 novembre 2020