Immaginiamo l’amore con cui il padrone pianta la sua vigna, quasi una figlia a cui associa una promessa di vita: in quella coltivazione egli vede il futuro, perché il futuro ha il volto della terra e il ritmo della crescita, lenta o rapida che sia, ma naturale, non corrotta dagli artifici dell’uomo. Vi è infatti un mistero di generazione che ha una matrice divina e chiede alla parte umana solo di essere accompagnato e sostenuto. È quanto compie il fattore: «La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre». Non sembrano soltanto opere atte a favorire la conservazione e produttività della vigna, ma i gesti di una vera e propria liturgia che si svolge in una cattedrale all’aperto. L’affidamento del campo ai contadini è sempre un rischio: avranno la stessa sensibilità del padrone o tradiranno il suo mandato? Quando Dio ci consegna i suoi beni, soprattutto persone verso cui abbiamo la responsabilità della crescita e dell’educazione, si assume il grande rischio della nostra libertà; eppure, come il padrone della vigna, preferisce ritirarsi e guardarci un po’ da lontano per consentirci di esprimere la creatività tipica dei figli, il cui fare dovrebbe essere imitativo di quello paterno.
Il seguito della parabola descrive allegoricamente le varie fasi della storia della salvezza, macchiata dalla persecuzione e dall’uccisione dei «servi» inviati a raccogliere i frutti, ossia i profeti mandati a suscitare nel popolo una condotta secondo giustizia. Perché tanto accanimento verso chi annuncia la verità, e non solo una volta, ma nella successione di ogni epoca storica? Perché tutt’oggi, dopo duemila anni di tradizione cristiana, commettiamo errori di cui la storia ci ha già mostrato la gravità e offerto la soluzione? Sembra che all’uomo contemporaneo non basti negare la rivelazione del Dio dell’amore, bensì occorra distruggere il bene che Egli vuole donare.
L’accanimento dei servi non risparmia il figlio. Può apparire ingenuo questo padre che pensa che il figlio venga rispettato: come ha potuto dare fiducia alla creatura che, da Abele in poi, non ha smesso di versare sangue? Come può dare fiducia a noi che abbiamo messo a morte Cristo e continuiamo a farlo quando pecchiamo? Ci troviamo qui nel cuore del mistero della misericordia paterna di Dio. Se Egli non fosse Padre, non sarebbe misericordioso; se non fosse misericordioso, non sarebbe Padre, ma giudice pronto a punire. Ci sorprende l’indomita fiducia del Signore verso la capacità dei suoi figli di fare il bene, anche dopo una vita di opere malvage. Sta qui il punto: siamo suoi figli, non può fare a meno di amarci, e amare vuol dire dare fiducia. Anche noi dovremmo fare lo stesso con i fratelli: ma che si fa quando l’esperienza ci ha dimostrato in tutti i modi che una persona non è degna di fiducia e continua a tradire? In questi casi, scommettere sulla persona significa credere non in quel fratello e basta, ma in lui rivestito di misericordia divina. Allora si può sempre dare fiducia a chi continuerà a sbagliare, pur se la prudenza chiederà di mettere in atto alcuni accorgimenti affinché il soggetto in questione non abbia più la possibilità di fare e farsi del male.
La parabola prevede il ritorno del padrone e lascia all’ascoltatore di immaginare l’esito della storia. Gli astanti di Gesù invocano la vendetta e la sostituzione dei contadini malvagi con altri, che «gli consegneranno i frutti a suo tempo». Ma siamo sicuri che la storia non si ripeterà con nuovi contadini? La logica di Dio è diversa; è quella del recupero dello scarto, della scelta del rifiutato, perché Egli pone a fondamento della costruzione del suo regno coloro che agli occhi del mondo non contano nulla. Nell’odierno pensiero dominante Cristo non conta nulla in quanto figlio di Dio; al massimo può dire qualcosa come personaggio storico. Se siamo suoi discepoli, dobbiamo accettare di essere una minoranza bistrattata e perseguitata. Ciò non è una rovina, ma «una meraviglia ai nostri occhi», perché significa che stiamo dando un frutto che durerà al di là di noi.