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Il perdono trasforma il nostro niente in un frammento del Tutto

Succede tuttavia che tale passaggio d’amore s’interrompa in quanto, nella sua libertà, il soggetto sceglie di non trattare gli altri per come è trattato da Dio, anzi di riservare loro un comportamento opposto, chiudendo il cuore al fratello e così colpendolo mortalmente. Sì, perché rifiutarsi d’amare è un modo di togliere vita ma anche di togliersi vita, facendo marcire dentro di sé il dono ricevuto.
Perché ciò avviene? La parabola del servo spietato ci aiuta a rispondere a tale interrogativo. Essa scaturisce dalla domanda di Pietro sulla estensione del perdono, che per Gesù deve essere concesso «fino a settanta volte sette», ossia sempre. Subito il Maestro traccia lo sfondo del «regno dei cieli» nel quale collocare il discorso sulla misericordia; senza l’orizzonte del regno il perdono apparirebbe come una negazione della giustizia: è vero che, come la giustizia, il perdono vuole riequilibrare rapporti sbilanciati, ma a differenza della prima esso è unilaterale, non implica un certo scambio tra le parti in causa, poiché perdonante e perdonato stanno l’uno di fronte all’altro come il tutto dinanzi al niente. Dunque unicamente nella prospettiva del regno è possibile esercitare la misericordia come atto gratuito e creativo, sapendo che essa è caparra del regno; in altre parole, se io sono compassionevole non solo sarò accolto nel regno di Dio, ma da seguace di Cristo non potrei fare a meno di vivere acquisendo la sua stessa sensibilità verso i peccatori.
Il debito del primo servo verso il padrone è una cifra simbolica, poiché per restituire 10.000 talenti si sarebbe dovuto lavorare 200.000 anni. Gli esegeti hanno visto in questa cifra il nostro debito verso Dio, la sproporzione che ritorna tra il Tutto e il niente. Mai potremmo corrispondere adeguatamente all’amore del Padre, che d’altra parte conosce il nostro limite, e guarda l’intenzione del cuore: è su quella che dobbiamo vigilare, perché quando facciamo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per amare e servire Dio, nulla è da aggiungere al frammento del Tutto che così noi siamo, anche se poi non raggiungiamo tutti gli obiettivi desiderati. «Lo lasciò andare» è l’immagine di una libertà ritrovata per pura grazia, la conseguenza di un flusso ininterrotto di misericordia che ci tiene in vita, impedendoci di essere schiacciati dal senso di colpa per la nostra inadeguatezza dinanzi al dono di Dio.
Dove andare con questa libertà donata? Il seguito della parabola indica la risposta: a liberare i fratelli ancora schiavi del peccato, che necessitano di gesti di accoglienza per ripartire nella vita. Il servo tuttavia si mostra spietato con un subalterno che gli doveva appena 100 denari, lo stipendio di 100 giornate lavorative. Ci sorprende e irrita tale durezza, ma ciò che più scandalizza è non aver fatto circolare il perdono ricevuto, aver preso senza dare. Ecco il problema: il perdono non si può prendere senza assimilarsi alla sua natura gratuita, senza diventare a propria volta ‘perdono’. Io non sono misericordioso quando non valorizzo il dono che Dio mi fa, lo consumo senza guardare in faccia il Donatore, e a quel punto penso di poter far finta di niente e vivere felicemente.
Il padrone parla al «servo malvagio» come Dio parla alla nostra coscienza e ci illumina su un comportamento che avrebbe dovuto essere naturale. Sappiamo però che il peccato tende ad autogiustificarsi, a legittimare scelte egoistiche che stridono col senso comune. Colpisce non tanto la severità della punizione, colorata di un linguaggio volutamente violento per scuotere l’ascoltatore, quanto la spiegazione, la ‘motivazione della sentenza’: il servo doveva fare come il padrone. Il Signore ci stima al punto da aspettarsi da noi un comportamento uguale al suo: davvero grande è la nostra dignità! Dunque la parabola mette in guardia dal pericolo che corriamo se blocchiamo il perdono, ma soprattutto apre mente e cuore, invitandoci ad andare oltre noi stessi. E il niente, ricevuto il Tutto, diventa suo preziosissimo frammento…