La visione miracolistica della fede, infatti, è tutta protesa al sensazionalismo che vuole attirare a sé il prossimo ed esercitare su di esso una qualche forma di potere, rifuggendo del tutto dall’assunzione del dolore proprio e altrui: non era questa una delle tentazioni di Gesù nel deserto e non sarà l’insidia in cui cadrà Pietro a Cesarea nel cap. 16, quando verrà apostrofato da Cristo come Satana?
La salita del Maestro sul monte è la più chiara lezione di lotta al personalismo che può annidarsi nella vita spirituale, in quanto la solitudine col Padre costituisce l’antidoto a tutte le raffigurazioni idolatriche del volto di Dio: solo quando sei faccia a faccia con Lui, capisci chi è il Signore! Oggi tanti cristiani non fanno esperienza di Dio perché non hanno il coraggio e la costanza di ritirarsi in disparte per stare con Lui; l’ascolto della Parola è troppo raro e inframezzato da rumori mondani o dalla fretta di trovare una soluzione ai propri problemi, con la conseguenza che se la fede funziona come anestetico al dolore ci si professa cristiani, altrimenti si abbandona facilmente la barca della Chiesa.
Quest’ultima intanto è «agitata dalle onde», condizione di pericolo ma tipica per chi si trova in mare. Forse abbiamo dimenticato che la fede è per sua natura chiamata ad attraversare la prova, tanto da perderci d’animo quando essa sopraggiunge. Matteo infatti non pone in risalto la drammaticità della prova, che è insita nella fede, bensì il rapporto con Cristo, che diventa determinante mentre la difficoltà si dispiega. Non basta sapere che Dio c’è quando il mare è in tempesta, ma occorre avere la giusta relazione con Lui, per evitare di scambiarlo con un «fantasma», come fanno i discepoli.
Perché non lo riconoscono? Sono forse da biasimare per non aver saputo interpretare un’apparizione così fuori dal comune, «vedendolo camminare sul mare»? Gesù non ha per loro parole di rimprovero, perché sa che noi ci impieghiamo un po’ a credere perfettamente; tuttavia Cristo chiede ai suoi di essere pronti a tutto, sia nel bene che nel male. La cifra della fede è proprio la disponibilità ad affrontare cose non previste, e a lasciarsi guidare in quei momenti unicamente dalla Parola. In ogni itinerario spirituale arriva il momento in cui non vedi più niente, non sai che strada prendere, e non avverti più la presenza del Signore. È la ‘notte oscura’ di tanti santi, chiamati a fidarsi di un Dio diverso da quello fino ad allora immaginato, perché diversa adesso è la prova da affrontare, ossia l’abbandono. Per abbandonarsi totalmente a Dio dobbiamo abbandonare le nostre aspettative su di Lui e sulla vita, e ciò implica la prova di sentirsi ‘abbandonati’, sguarniti, nudi.
Nel dialogo tra Gesù e Pietro l’evangelista dà corpo a questa dinamica dell’affidamento radicale, che comincia da uno slancio dell’apostolo, inizio di un cammino, ma ancora troppo pieno di sé. Pietro vorrebbe che Gesù confermasse la sua visione della fede, che parte dall’uomo per arrivare a Dio, il quale rimane (forse) l’Onnipotente, ma si riduce ad una conquista umana, col risultato che se io conquisto l’Onnipotente sono onnipotente a mia volta!
Cristo asseconda la volontà dell’apostolo, perché Egli ci fa percorrere le strade che noi ostinatamente decidiamo di intraprendere. In questi casi, però, non ci perde mai di vista, e quando inevitabilmente la vita dimostra che ci siamo ingannati e stiamo per «affondare», ci tende la mano. Lì capiamo, come Pietro, che siamo uomini «di poca fede», che la fede non deve essere mai spavalda, ma è vacillante: se accetto che la mia fede è imperfetta, e che forse ho sbagliato proprio nelle cose a cui tenevo di più, senza accanirmi nel mio errore, allora mi lascerò afferrare da Cristo e finalmente farò l’esperienza di essere salvato. È questa la vera fede, che stavolta non è più impresa umana ma parte dall’incontro col proprio limite, nel quale si scopre una presenza inaspettata e immeritata che ti spinge oltre il tuo limite: allora sì che diventi ‘onnipotente’, ma per fede, collaboratore dell’opera di Dio.