Tuttavia può accadere che il problema che una persona ti pone non sia di facile soluzione o che comunque tu non sia in grado di intervenire. Che fai quando sei davanti a un disoccupato che chiede lavoro, a un malato che si aspetta la guarigione, a un orfano sprofondato nel vuoto della perdita? Certi dolori, anche se non sono i tuoi, li avverti così lancinanti che vorresti allontanarli, non vederli e non pensarci. Così facendo, puoi rischiare di negare il problema, di far finta che non ci sia. È quanto fanno i discepoli, che dinanzi alla complicazione di una folla affamata, suggeriscono a Gesù di congedarla «perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». Forse nella proposta dei Dodici si può ravvisare anche la preoccupazione di evitare ogni fastidio alla marcia trionfale loro e del Maestro; non hanno capito ancora che Gesù assume tutto il dramma della sofferenza umana. Egli si era ritirato «in un luogo deserto» per comprendere la volontà del Padre dopo l’evento tragico della morte del Battista. La sofferenza che Cristo prova per la perdita del cugino non lo induce ad una fuga ma ad una assunzione di responsabilità di fronte alla sofferenza della gente che accorre a Lui: infatti «guarì i loro malati». Ecco la risposta adeguata al dolore che proviamo: invece di chiudersi, prendersi cura del dolore altrui, unirlo al proprio e consegnarlo a Dio, soffrire insieme davanti al Signore, e fare della «compassione» una via di comunione tra noi e il prossimo, tra noi e Dio.
La soluzione concreta al problema che Gesù offre appare assurda, se non sarcastica: «Voi stessi date loro da mangiare». L’esegesi ci dà una doppia possibilità interpretativa del pronome ‘voi’, che può essere considerato soggetto o oggetto della proposizione. Nel primo caso, gli apostoli dovrebbero incaricarsi di una distribuzione che, prima ancora di verificare la disponibilità di cibo residuo, risulta impossibile dato il numero elevato di persone. Nel secondo caso, l’impegno richiesto da Gesù è totalizzante e apparentemente illogico: diventare cibo per gli altri.
«Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». Quello che c’è è poco; non si può porre rimedio alla scarsità delle risorse. È questo un tema attualissimo, ma sappiamo bene come oggi il problema non sia l’insufficienza dei mezzi di sostentamento, bensì la mancanza di un serio e radicale stile di condivisione. «Portatemeli qui» è l’invito del Maestro ad una fiducia incondizionata nella sua persona. Non siamo noi a dover fare miracoli, Egli non ci chiede questo! Però ci chiede di non impedire a Dio di fare miracoli. Quel poco che abbiamo, infatti, se lo teniamo stretto nelle mani, per timore che non sia sufficiente, diventa un ostacolo che impedisce alla sua grazia di agire e marcisce; se invece lo consegniamo al Signore, diventa canale di grazia e il miracolo avviene!
Il comando successivo che chiede «alla folla di sedersi sull’erba», è una ulteriore esortazione alla fiducia, affinché il popolo si disponga in atteggiamento di apertura verso Dio e di attesa speranzosa del suo intervento.
Ma l’intento di Gesù è davvero quello di risolvere il problema della fame? Se nell’immediato sembra di sì, dalla lettura delle tradizioni evangeliche sulla moltiplicazione dei pani sappiamo come tale miracolo sia un segno che indica la Provvidenza divina e che vuole suscitare la fede. La solennità dei gesti compiuti fa cogliere come la moltiplicazione sia una vera e propria liturgia, che poi il popolo cristiano ripeterà nella celebrazione eucaristica, un dialogo col Padre con un movimento sia ascendente, in cui si offre a Dio la povertà dei mezzi umani («alzò gli occhi al cielo»), sia discendente («recitò la benedizione»). Gesù affida i pani e i pesci ai discepoli, perché a loro volta li distribuiscano alla folla: è la legge della mediazione, per cui il dono di Dio noi lo riceviamo da un altro, affinché impariamo a nostra volta a farci dono.
«Tutti mangiarono a sazietà», perché il pane del cielo è un dono d’amore sovrabbondante offerto a ciascuno.