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Il buon Pastore è porta d’ingresso della vita

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Il popolo di Israele era un gregge non sempre condotto in passato da pastori illuminati che cercavano il bene delle pecore. Il recinto nel quale adesso si trovava era fatto di rigidi divieti e prescrizioni che il sistema farisaico della legge imponeva, e quindi costituiva uno spazio chiuso dentro il quale le pecore potevano al massimo illudersi di essere libere. Non a caso nel capitolo precedente sul cieco nato Gesù stigmatizza le guide cieche dei farisei che, non riconoscendo la vera luce di Cristo, non possono assolvere al loro compito di pastori. Essi inevitabilmente si trasformano in ladri e briganti, che sottraggono libertà e vita, che ingannano gente bisognosa di essere guidata. In questo contesto comincia a delinearsi la figura del pastore, del quale si dice subito che «entra dalla porta». Non ha bisogno di accessi secondari, non sorvegliati, perché viene in un ambiente a lui abituale. Il guardiano lo fa accedere: questa figura evoca il Padre, che consegna ciascuno di noi nelle mani del Figlio affinché ci dia vita, ma chi sta alla porta è anche la nostra coscienza, che decide chi far entrare e chi no. Apre la porta a Gesù chi ascolta la sua voce: accoglierlo significa mettersi all’ascolto della sua voce familiare, il cui timbro ti è dolce come quello di tua madre fin dalla nascita. Ci sono voci che fanno parte della nostra vita, che ci consolano e allietano il cuore, la cui assenza è veramente drammatica. Il pastore «chiama le sue pecore, ciascuna per nome», entrando in una relazione personale con esse. A volte è già sufficiente ascoltare una persona che parla bene e dice cose in cui ti riconosci, come un predicatore che ti attrae per la sua profonda sapienza; se poi succede che quella stessa persona comincia a rivolgersi a te e sembra interessata alla tua vita, allora ti senti amato e aumenta la gioia di vivere. Infatti il pastore ti dà vita, perché «conduce fuori» le pecore, verso i pascoli della maturità e responsabilità. Non sempre siamo disposti a uscire dai nostri recinti fisici o psicologici, che possono difenderti dalla paura di affrontare la vita ma rischiano di trasformarsi in prigioni, e neanche molto dorate. La vita ti butta fuori, è un esodo, fin da quando usciamo dal grembo materno, e sappiamo bene quanto sia penoso che una persona adulta non abbia ancora reciso dei legami infantili di dipendenza che impediscono il passaggio verso la maturità reale. Un’immagine che mi ha sempre colpito è che questo pastore «cammina davanti» alle pecore, mentre nell’esperienza umana egli sta dietro e trascina il gregge a suon di urla, percuotendolo col bastone. Il divin pastore sta davanti perché non vuole costringere nessuno; chi lo segue, lo fa liberamente in quanto conosce la sua voce, si fida di Lui, mentre «un estraneo non lo seguiranno». Un bambino difficilmente accetta di stare in braccio ad una persona che non conosce. Nella vita spirituale la conoscenza affettiva è il centro, il motore del cammino, che altrimenti sarebbe asettico: il pastore sarebbe un funzionario che esercita meccanicamente un ruolo e i fedeli sarebbero sudditi. «Essi non capirono», perché non sempre si capisce che bisogna partire da un dialogo cuore a cuore con Gesù, che risolverebbe tante angustie personali e familiari.
Egli parla poi in prima persona e si definisce la «porta delle pecore», immagine suggestiva, che nella Bibbia evoca sempre il portale d’ingresso in un orizzonte più ampio, spesso quello celeste. Passare attraverso di essa conduce alla salvezza, fa trovare pascoli ubertosi, perché Cristo è venuto per darci la vita in abbondanza, che è sempre comunione col Padre: ad essa allude il linguaggio liturgico del testo, il quale invece stigmatizza il ladro, che ‘sacrifica’ per il proprio tornaconto le pecore. Domandiamoci se il nostro entrare nella vita dell’altro è un sostare in essa per trarre ogni vantaggio o siamo noi porta, passaggio verso Dio, collaboratori dell’incontro con l’Assoluto.