In questi giorni, la diocesi di Reggio Calabria ricorda l’ingresso di monsignor Ferro sul territorio reggino, e proprio in quei giorni, l’arcivescovo scrisse un messaggio rivolto al clero e ai fedeli: «Pronunciai piangendo il mio SI’ al Signore, lo ripetei al suo vicario, e da quel momento mi si accese in cuore per tutti voi la fiamma di una spirituale paternità, che mi legherà a voi per sempre. Confortato dalla benedizione del Santo Padre, confidando nella docile corrispondenza di ciascuno di voi e nell’aiuto prezioso delle preghiere di tutti, io mi accingo a venire nel nome del Signore per compiere tra voi l’altissima missione che mi viene da Dio, attraverso il mandato del suo vicario in terra. Voi lo sapete: la mia è una missione d’amore; essa mi impegna a vedere e a servire Dio in ogni anima affidata alle mie cure pastorali, e mi obbliga a ricordare a quanti hanno autorità sopra degli altri, il dovere di considerarsi loro servitori, poiché tale è l’insegnamento e il comando del divino Maestro». Monsignor Ferro fa il suo solenne ingresso nell’arcidiocesi di Reggio Calabria il 2 dicembre 1950 e l’otto dicembre nella diocesi di Bova.
All’inizio della Quaresima (così come farà ogni anno), il 27 febbraio 1951, dopo poco più di due mesi dal suo ingresso, scrive la sua prima Lettera pastorale, che già rivela la sua spiritualità e il suo stile indimenticabile. «Per accorgersi dei poveri – scrive Ferro – bisogna essere umili e semplici, liberandosi dal giogo opprimente, imposto dal culto della ricchezza. Inoltre la carità non prescinde dalla giustizia, che esige anzitutto di restituire la dignità ad ogni uomo, creatura di Dio con sacri e inviolabili diritti, e riconoscere il valore assoluto della sua persona». Il presule, poi, racconta la sua esperienza con la povera gente: «Quando noi osserviamo, con una pena indicibile dell’anima, l’estrema povertà e l’angustia di certe dimore, ove si raccolgono intere famiglie in condizioni di vita indegne di essere umani, quando vediamo tanti fanciulli, che crescono privi di istruzione e di educazione, nonostante il lodevole sforzo delle autorità di moltiplicare la scuole, quando vediamo perpetuarsi la triste condizione dei braccianti, ridotti a un’infima condizione di vita e privi di ogni speranza di ottenere mai alcuna porzione di suolo, la loro forzata inattività per lunghi periodi dell’anno e la spaventosa ignoranza della maggior parte di essi, pur riconoscendo le gravi difficoltà che si incontrano nella soluzione dei più ardui e complessi problemi economici, dobbiamo dolorosamente convincerci che molti cristiani vivono dimentichi dei più gravi doveri di giustizia e di carità e non fanno certamente onore alla fede che professano e alla Chiesa di cui sono membri».
Questa prima Lettera pastorale rivela subito, in modo evidente, l’orientamento costante della vita e della spiritualità di monsignor Ferro, ma anche le linee pastorali che egli intende seguire: Dio si ama, di fatto, negli altri, specialmente nei sofferenti e nei poveri. Portò ovunque con sé, per farne dono agli altri, la dolcezza di una formazione umana e cristiana tipica della gente umile, povera ma ricca di ingegno e di fede, quale fu la sua famiglia. Il carisma del Santo Fondatore del suo ordine, san Girolamo Emiliani, a cui si avvicinò giovanissimo, ne plasmò profondamente l’animo, facendolo attento alle necessità degli orfani e dei diseredati, dei soli e dei sofferenti, come dimostrerà con le tante opere di assistenza e di carità, da lui promosse e fatte crescere come una «proliferazione di amore». Aveva l’occhio purificato dell’amore e sapeva vedere le necessità dei fratelli ovunque.
Dice di lui monsignor Giuseppe Agostino, che prima di essere vescovo è stato suo vicario generale: «Per monsignor Ferro essere pastore significava rispondere alle vicende dell’uomo. Considerava la pastorale come atto di amore, gesto di servizio. Non aveva la tentazione di schematismi, ma aveva l’antenna dello Spirito. Era la sentinella sempre sveglia per cogliere i passaggi di Dio nelle sofferenze altrui». L’arcivescovo è il primo che si mette in cammino per soccorrere le vittime dell’alluvione che nell’ottobre del 1951 colpisce in particolare la zona ionica: la diocesi di Bova e la Locride. Accompagnato dal giovane don Italo Calabrò e da tanti sacerdoti e laici, accorre subito anzitutto nei paesi sperduti e poveri della diocesi di Bova: Roghudi, Casalinuovo, Africo. Ci furono danni enormi e notevoli sofferenze, tanta gente rimase senza casa, paesi interi evacuati. Raggiunse con ogni mezzo i luoghi della tragedia per consolare e presiedere riunioni per interventi urgenti. Attraverso la radio fa appello a tutta la nazione «perché una nobile gara di fraterna solidarietà riporti la serenità e la gioia dove la distruzione e la morte hanno seminato tante rovine». Intanto si fa povero tra i poveri e progetta soccorsi immediati d’emergenza, aprendo chiese, locali parrocchiali, istituti religiosi, seminario per la prima accoglienza. Si avvale di tutti gli aiuti e le risorse che arrivano dalla Divina Provvidenza nella quale credeva davvero.