Padre Ernest ha festeggiato le sue 91 primavere (il 18 ottobre) assieme ai detenuti del carcere di Reggio Calabria; un luogo – un istituto di pena – che il porporato conosce bene avendo vissuto per ben 28 anni (dal 1963 al 1991) la condizione di recluso.
«Tu sei nemico del popolo» gli dissero quattro poliziotti del regime comunista albanese quando lo ammanettarono davanti ai suoi fedeli nella notte di Natale del 1963. La sua colpa? Dirsi pronto a offrire la propria vita per il Signore seguendo quella vocazione precocissima al sacerdozio: a soli 10 anni era già in convento dai francescani di Scutari dai quali ebbe una formazione severa, ma radicale.
«Quello che facciamo – ha detto il cardinal Simoni – è solo merito della grazia divina». Un ulteriore attestato della sua grandissima umiltà, tratto caratteristico di una vita spesa tra gli ultimi, quei quattromila detenuti coi quali ha condiviso la miseria di una carcerazione ingiusta. Con tanto di sorprusi e umiliazioni: era lui, don Ernest, il deputato a spalare ogni giorno le latrine; sempre lui – quel parroco mite di campagna – a essere impiegato nei “canali” delle fogne della sua città oppure costretto a estrarre rame vestito solo di stracci.
«Ma perché proprio a lui?» chiedevano gli altri detenuti. «Perché è un prete». Enver Hoxha, il dittatore dell’Albania, lo aveva messo in cima alla lista dei nemici da sterminare, eppure gli aveva commutato la pena: dall’impiccagione al carcere a vita. Il motivo? «Quando mi arrestarono misero un ragazzo in cella con me; quel giovane mangiava spesso in canonica, lo conoscevo bene. Doveva indurmi a parlare male di Hoxha, ma io non lo feci». Mai, don Ernest Simoni spese parole di maldicenza verso quel dittatore che lo stava condannando ingiustamente a morte.
«Ama i tuoi nemici», ripete adesso anche a decenni di distanza. La sua esistenza è costellata di eventi tragici, ma anche di tantissima preghiera silenziosa. Faceva da sé le ostie per celebrare l’Eucarestia di nascosto nella sua cella, mentre l’uva per celebrare la messa, gli veniva regalata da un detenuto musulmano. Visse così, quei lunghi 28 anni, con sobrietà d’animo e fede incrollabile. «Dio mi ha salvato», dice raccontando di quando Madre Teresa di Calcutta si fece ambasciatrice di Giovanni Paolo II all’inizio degli anni ‘90. La sua fedeltà ai successori di Pietro, lo portarono sempre a rifuggere dai tentativi del regime di creare una propria Chiesa. «Gesù è giustizia infinita», chiosa nel raccontare dell’abbraccio con papa Francesco.