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Servirsi di Dio o servire Dio?

L’insegnamento di Cristo va nella direzione opposta, è sempre inclusivo ed educa il cuore di chi ascolta ad aprirsi a logiche completamente nuove, che tuttavia possono essere rifiutate da chi non vuole rinunciare a nutrire il proprio io, laddove Gesù ha sempre predicato che ogni gloria o ricompensa vanno cercate nel Padre. Il valore di una vita non si misura dal posto che si occupa rispetto agli altri, ma dal posto che si occupa nel cuore dell’Amato! Di Sabato  a quel pranzo dovevano esserci persone ragguardevoli, perché il padrone di casa è uno dei capi dei farisei. La scelta dei primi posti, che Gesù nota, è vecchia quanto il mondo. Già questo dovrebbe farci cogliere nell’insegnamento originale del Maestro un’occasione di reale rinnovamento, ma un cuore invecchiato nelle ambizioni e invidie non comprenderà mai la breccia che Cristo è in grado di aprire in tanta durezza. L’invito a scegliere l’ultimo posto non è una istigazione alla furbizia per risparmiarsi la brutta figura di essere retrocessi, ma l’annuncio dell’imperdibile opportunità di assomigliare al Figlio che, essendo venuto per servire, non chiede niente per sé e fa tutto per i fratelli. Ecco perché si impone una domanda: mi servo di Dio o servo Dio? Per passare dall’uno all’altro crinale dell’esistenza, è sufficiente partire dalla considerazione che Dio mi ha sempre servito; lo ha fatto donandomi suo Figlio e continua a farlo anche se non lo merito. Anzi, proprio perché non lo merito e quindi non riuscirei a salvarmi da solo, Egli si china su di me, offrendomi così un esempio introvabile altrove. Chi trasforma tale esemplarità nel paradigma della propria vita, ne avrà «onore davanti a tutti i commensali […] chi si umilia sarà esaltato». Stavolta si tratta della gloria resa da Dio, quella della croce, per nulla illusoria e prevaricatrice. È questione di fede, o ci credi o no, o dai da mangiare al tuo io o decidi di sfamare gli altri. Dare nutrimento a chi non ha significa distribuire i doni di Dio, l’esatto contrario del sottrarli agli altri e accumularsi per sé. È quanto si profila nella seconda parabola raccontata da Gesù, nella quale chi offre un banchetto si sente rivolta l’esortazione a compiere un altro atto di coraggio rivoluzionario, ossia invitare chi non può ricambiare. La compagnia degli emarginati dalla vita civile e religiosa era quasi impensabile a quel tempo, perché la crescita nella gerarchia socio-religiosa era indice di benedizione divina. Il punto è che il Signore vuole offrirti un altro respiro, che inizia con quello maleodorante del povero e dell’ammalato e culmina nel sospiro di Cristo sul Calvario, ove i rantoli dell’umanità gonfiano il petto del Crocifisso, da cui esce il vento nuovo dello Spirito che trasforma tutte le cose. È come se Gesù dettasse una nuova gerarchia, rivelando i prediletti del cuore di Dio, «poveri, storpi, zoppi, ciechi», inabili nei traffici, nel cammino e nella visione. Si tratta di tre dimensioni antropologiche che si sostengono o elidono a vicenda, perché se vuoi andare lontano devi essere capace di scorgere la meta e disporre dei mezzi necessari per dirigerti verso di essa. Qui Gesù sta parlando di coloro che non hanno futuro agli occhi del mondo e sta dicendo che il discepolo ha il compito di dare speranza a chi si sente tagliato fuori dalla vita. Comprendiamo pertanto come la dedizione agli ultimi sia l’autentica costruzione del futuro dell’umanità, altro che perdita di tempo! Se decidessimo di impostare l’esistenza sulla condivisione gratuita dei doni ricevuti, ne avremmo una gioia piena, come dichiara Gesù, definendo beato chi non può essere ricambiato se non alla «risurrezione dei giusti». Da ciò deriva che chi ha rinunciato alla generosità ha rinunciato alla felicità su questa terra e nell’eternità. Come evitare una tale aberrazione? Osservando anche noi Gesù, non con la superbia dei farisei, ma con l’umiltà dei poveri che attendono solo da Lui parole e gesti di vita.

Gesù è invitato ma è anche osservato; è uno da cui tutti si aspettano parole e gesti significativi, non certo scontati. Ed Egli puntualmente racconta due parabole che sconvolgono il modo di pensare e di agire dei farisei, del tutto prevedibili perché radicati in una tradizione che mirava a difendere e consolidare i loro privilegi dinanzi al popolo. Sì, perché accade spesso che la conoscenza teorica di Dio e del suo messaggio diventi una piedistallo su cui salire per sentirsi migliori e da cui giudicare gli altri, illudendosi così di ingannare la coscienza sulla propria presunta giustizia. L’insegnamento di Cristo va nella direzione opposta, è sempre inclusivo ed educa il cuore di chi ascolta ad aprirsi a logiche completamente nuove, che tuttavia possono essere rifiutate da chi non vuole rinunciare a nutrire il proprio io, laddove Gesù ha sempre predicato che ogni gloria o ricompensa vanno cercate nel Padre. Il valore di una vita non si misura dal posto che si occupa rispetto agli altri, ma dal posto che si occupa nel cuore dell’Amato!

Di Sabato  a quel pranzo dovevano esserci persone ragguardevoli, perché il padrone di casa è uno dei capi dei farisei. La scelta dei primi posti, che Gesù nota, è vecchia quanto il mondo. Già questo dovrebbe farci cogliere nell’insegnamento originale del Maestro un’occasione di reale rinnovamento, ma un cuore invecchiato nelle ambizioni e invidie non comprenderà mai la breccia che Cristo è in grado di aprire in tanta durezza. L’invito a scegliere l’ultimo posto non è una istigazione alla furbizia per risparmiarsi la brutta figura di essere retrocessi, ma l’annuncio dell’imperdibile opportunità di assomigliare al Figlio che, essendo venuto per servire, non chiede niente per sé e fa tutto per i fratelli. Ecco perché si impone una domanda: mi servo di Dio o servo Dio? Per passare dall’uno all’altro crinale dell’esistenza, è sufficiente partire dalla considerazione che Dio mi ha sempre servito; lo ha fatto donandomi suo Figlio e continua a farlo anche se non lo merito. Anzi, proprio perché non lo merito e quindi non riuscirei a salvarmi da solo, Egli si china su di me, offrendomi così un esempio introvabile altrove. Chi trasforma tale esemplarità nel paradigma della propria vita, ne avrà «onore davanti a tutti i commensali […] chi si umilia sarà esaltato». Stavolta si tratta della gloria resa da Dio, quella della croce, per nulla illusoria e prevaricatrice. È questione di fede, o ci credi o no, o dai da mangiare al tuo io o decidi di sfamare gli altri. Dare nutrimento a chi non ha significa distribuire i doni di Dio, l’esatto contrario del sottrarli agli altri e accumularsi per sé.

È quanto si profila nella seconda parabola raccontata da Gesù, nella quale chi offre un banchetto si sente rivolta l’esortazione a compiere un altro atto di coraggio rivoluzionario, ossia invitare chi non può ricambiare. La compagnia degli emarginati dalla vita civile e religiosa era quasi impensabile a quel tempo, perché la crescita nella gerarchia socio-religiosa era indice di benedizione divina. Il punto è che il Signore vuole offrirti un altro respiro, che inizia con quello maleodorante del povero e dell’ammalato e culmina nel sospiro di Cristo sul Calvario, ove i rantoli dell’umanità gonfiano il petto del Crocifisso, da cui esce il vento nuovo dello Spirito che trasforma tutte le cose. È come se Gesù dettasse una nuova gerarchia, rivelando i prediletti del cuore di Dio, «poveri, storpi, zoppi, ciechi», inabili nei traffici, nel cammino e nella visione. Si tratta di tre dimensioni antropologiche che si sostengono o elidono a vicenda, perché se vuoi andare lontano devi essere capace di scorgere la meta e disporre dei mezzi necessari per dirigerti verso di essa. Qui Gesù sta parlando di coloro che non hanno futuro agli occhi del mondo e sta dicendo che il discepolo ha il compito di dare speranza a chi si sente tagliato fuori dalla vita. Comprendiamo pertanto come la dedizione agli ultimi sia l’autentica costruzione del futuro dell’umanità, altro che perdita di tempo! Se decidessimo di impostare l’esistenza sulla condivisione gratuita dei doni ricevuti, ne avremmo una gioia piena, come dichiara Gesù, definendo beato chi non può essere ricambiato se non alla «risurrezione dei giusti». Da ciò deriva che chi ha rinunciato alla generosità ha rinunciato alla felicità su questa terra e nell’eternità. Come evitare una tale aberrazione? Osservando anche noi Gesù, non con la superbia dei farisei, ma con l’umiltà dei poveri che attendono solo da Lui parole e gesti di vita.