È «seduta ai piedi del Signore», nella posizione del discepolo, contro ogni convenzione religiosa, che impediva ai maestri del tempo di includere delle donne al loro seguito. Eppure Maria è lì, immobile, non si scompone, come se il mondo attorno a lei si fosse fermato, come se avesse trovato ciò che cercava da sempre. «Ascoltava la sua parola»; non sappiamo quale, ma non è importante, qualsiasi parola uscisse dalla bocca di Cristo. È commovente la dedizione della donna. Spesso noi attendiamo da Dio delle risposte, quasi che Lui debba dirci ciò che ci aspettiamo, e non siamo liberi di vivere un ascolto genuino e aperto. Con una avversativa, Luca giustappone a questa icona di perfetto discepolato la dispersione di Marta a causa del suo fare. Ciò potrebbe destare perplessità: non è logico pensare che l’amore ha bisogno di gesti concreti? Certo, ma l’inganno è ritenere che l’ascolto non sia un ‘gesto concreto’.
Quando noi ascoltiamo qualcuno gli diamo ospitalità dentro di noi: mentre Marta ha offerto un’ospitalità esteriore, quella di Maria è stata tutta interiore. Marta vede che la sorella è in questa intima comunione con Gesù e decide di intervenire. Lo fa per ripristinare l’equilibrio nell’organizzazione dei servizi domestici in favore del Maestro o perché soffre della condizione privilegiata che Maria si trova a vivere con Gesù e vorrebbe scardinarla? Propendiamo per quest’ultima ipotesi, perché dinanzi all’invidia e alla gelosia che montano, gli uomini hanno sempre dimostrato di sacrificare gli slanci ideali più spontanei e di travestire di verità la menzogna. Marta, quasi incombendo fisicamente sull’ospite e la sorella, pone un’interrogativa retorica sferzante, presupponendo che Gesù approvi il suo giudizio negativo verso Maria.
Non lascia spazio ad una soluzione diversa: Maria sta sbagliando e Gesù deve correggerla. Ella lamenta anche la solitudine del suo servire, rivelando così un’amara verità: il fare affannoso non crea comunione; gli altri sono attirati da uno sguardo lieto, che ha ben chiaro il fine del servizio e non esaspera il mezzo. Ricordo diversi anni fa di aver soggiornato presso una comunità di vita che si ispirava alle prime chiese cristiane, tenendo i beni in comune e condividendo il lavoro e i suoi frutti; il limite era che, senza la preghiera e la correzione fraterna, quella realtà si era trasformata in un laboratorio che produceva perfettamente manufatti ma non aveva più un’anima evangelica. La risposta di Gesù è solenne, sia perché è «il Signore» a parlare, sia perché, ripetendo per due volte il nome di Marta, Egli si lega a quei passi biblici in cui la doppia chiamata di un personaggio indica una svolta nella sua vicenda e nella storia di Israele. In particolare, troviamo un parallelismo significativo con Esodo 3,4.
Mosè si sente chiamare dal roveto ardente; egli era stato confinato per quarant’anni nel deserto perché doveva comprendere che non poteva liberare il popolo senza prima aver permesso a Dio di educarlo, purificandolo dalla presunzione di scegliere lui mezzi e tempi della liberazione. Similmente Marta, presa dall’assillo di fare bene, ha stravolto il senso delle cose: mentre in casa è entrato il Maestro, è diventata lei la maestra che vorrebbe insegnare a Gesù cosa dire e fare. E così il Signore svela che la donna ha tramutato il servizio in agitazione, esaltando invece la scelta di Maria, che è opzione per la cosa necessaria e buona, «che non le sarà tolta».
Il Maestro non specifica di cosa si tratta, lasciando a Marta e al lettore di interpretarlo, invitandoli a loro volta ad entrare nel silenzio fatto di ascolto e ricerca. È solenne anche il silenzio di Maria, che non ribatte alle accuse immotivate della sorella perché, chi ha il cuore pieno della Parola, lascia a Dio l’unica e ultima parola.