Tale condizione non si può spiegare perfettamente, perché non parliamo di realtà materiali evidenti, ma la Parola di Dio ci permette di riconoscere quando siamo investiti dal soffio dell’amore: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti». Dunque, all’origine, un sentire e un operare. Tante volte si dice che l’amore non può essere ridotto a un sentimento, tuttavia l’amore per Gesù dev’essere la passione della nostra vita. Recentemente una vedova in discernimento per una scelta di consacrazione religiosa dava questa testimonianza: ‘Il dolore era profondo; avevo capito che nessun uomo avrebbe potuto colmare quel vuoto. È accaduto allora che, pregando, ho cominciato a trovare consolazione nel meditare l’umanità di Cristo. Poco dopo ho percepito un amore crescente, posso dire di essermi innamorata di Gesù e ora sono qui’. È la concretezza dell’amore per il Figlio fatto uomo a rendere l’osservanza dei suoi comandamenti l’approdo naturale dell’itinerario spirituale. Ciò che si fa per amore non può essere gravoso, altrimenti è costrizione o tatticismo. Il problema è quando, non coltivato, l’amore affievolisce come i fiori che non ricevono acqua; a quel punto ogni più piccola esigenza dell’amore stesso diventa un ostacolo insormontabile. Anche in questo caso la Parola del Signore è un balsamo: «ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te» (2Timoteo 1,6). Tener vivo l’amore per compiere le opere da esso dettate e fare le opere che Dio ispira per accrescere l’amore: dentro questa circolarità, in cui l’amore è principio e compimento insieme, si colloca la vita nello Spirito. Fuori di questa corsa da innamorati, paragonabile a quella di Giovanni al sepolcro o di Pietro al lago verso il Risorto, non si dà vita pneumatica. Il Figlio è già il nostro avvocato, come afferma 1Giovanni 2,1: «se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto»; la terza persona della Trinità vien definita «un altro Paraclito» perché continua e perfeziona l’opera del Figlio a nostro vantaggio, rendendoci la sua stabile dimora, come Maria. Nella madre il cammino dello Spirito ha trovato piena accoglienza; adesso tocca a noi, siamo noi chiamati a dare la nostra carne a Dio, offrire l’intelletto e la volontà affinché il soffio divino ne prenda possesso, muova la nostra vita, ci faccia trovare la chiave giusta. Che poi è anche chiave di volta e chiave di violino; architettura e musica: lo Spirito, insomma, è tutto, e percepire il suo dono riversato nei nostri cuori ci fa sentire in comunione col Tutto e con tutti. Chi decide di non entrare in tale esuberanza d’amore sceglie la frammentarietà e l’isolamento. Alcuni possono sembrare contenti del poco piacere intellettuale o sensuale che conquistato, illudendosi di appagare così il desiderio del loro cuore; la creatura però desidera infinitamente e non può trovare pace se non dentro l’unica esperienza, quella nello Spirito, che fa vivere il Tutto nel frammento dell’esperienza particolare. È proprio vero che, come nell’Eucaristia c’è tutto Dio e tutta la storia dell’uomo, nella docilità allo Spirito c’è tutto il senso e la gioia della vita. E se questa verità dovesse sembrare lontana da noi, lo Spirito ce la insegnerà e ricorderà.
«Io pregherò il Padre». Perché Gesù prega? Perché il Padre ci dia lo Spirito. Il suo desiderio più grande, infatti, è che noi non ci sentiamo orfani, ma figli. Chi ha fatto l’esperienza di rimanere orfano, sente tutta la forza di queste parole cariche di infinito amore. Chi conosce il dolore del distacco, sa quanto disorientamento c’è e quanto schiacciante è il peso di dover crescere velocemente e affrontare la vita da soli.
«Se mi amate». Tuttavia in quel ‘se’ c’è tutta la nostra libertà. E non sempre so vivere da figlio, spesso vivo come se fossi ancora orfano, triste e arrabbiato come chi non sa di essere amato, impaurito e sfiduciato di dover affrontare da solo l’incognita del domani. Eppure a Pentecoste lo Spirito Santo è sceso in abbondanza. Allora quello che manca è il nostro sì, è la decisione di cambiare quel ‘se’ in un ‘sì’.