Essa è infatti una scalata che sembra a volte così lontana dalla sensibilità di tanti battezzati, i quali preferiscono pascolare più comodamente lungo le pianure soporifere della televisione o di internet. I discepoli sono invitati a fuggire quegli stili di vita che li rendono «oppressi dal sonno» della banalità e fanno perdere l’appuntamento con l’Eterno, tra cui il disimpegno nella comunicazione autentica con Dio e non filtrata da uno schermo con i fratelli. Un’obiezione che si potrebbe avanzare è che la preghiera a volte è arida, non ci mostra un Gesù dal volto e dalle vesti sfolgoranti. Dunque il Signore ha voluto offrire una manifestazione irripetibile, quasi a illuderci della bellezza soprannaturale della preghiera per poi ricacciarci nel disincanto di chi sa che non raggiungerà mai quelle vette? Occorre precisare che la Trasfigurazione si iscrive tra le rivelazioni metastoriche del divino, al pari della Risurrezione, di cui è l’anticipazione. Essa segna l’irruzione dell’Eterno nel tempo, la teofania del Figlio, la possibilità di vederlo con gli occhi stessi del Padre. Tuttavia, con le dovute proporzioni, possiamo pensare che ci sono dei momenti nella vita di ciascuno in cui abbiamo l’impressione che Dio si riveli a noi in modo più chiaro e definitivo. Sono quelle le nostre personali esperienze di Trasfigurazione, in cui avverti la bellezza di stare con Cristo e senti che la comunione con Dio e con gli altri, spezzata dal peccato, è ora ricomposta dall’amore e più forte di qualsiasi divisione. Ma come il Padre vede il Figlio? La compresenza di Mosè ed Elia rappresenta la testimonianza che la Legge e i profeti danno di Gesù, il quale a sua volta, avendo ascoltato le Scritture lungo tutto il corso della vita terrena, si qualifica come il Figlio dell’ascolto. Ecco, Dio lo vede come il Figlio che ascolta ed è disposto a farlo anche quando la volontà del Padre sembra assurda. Quale padre infatti chiederebbe al figlio di sacrificare la propria vita e quale figlio, invece di rinnegare un tale padre, si metterebbe a dare ascolto a Lui e ai suoi inviati? Ascoltare il dolore: è quest’attitudine che Gesù ha sviluppato ascoltando il grido dei poveri, dei malati e dei peccatori fino a farsi un tutt’uno con essi; la Parola è così diventata il grido degli uomini presso Dio. La capacità di assumere il dramma della storia umana rende Cristo bello e luminoso anche agli occhi dell’uomo, che si sente così accompagnato nell’ora della prova. Inoltre, l’ascolto che il Figlio ha saputo costantemente mantenere lo rende degno di ascolto presso gli uomini. Il Padre attesta dal cielo l’opera del Figlio, che poi è la sua stessa opera di salvezza, la quale si realizza sempre attraverso l’ascolto. Ci saremmo aspettati che Dio dicesse: ‘guardatelo’ o ‘adoratelo’, invece la delicatezza del Signore non impone la presenza di Gesù alla nostra vita. Egli chiede una risposta fatta di ascolto e di dialogo, che deve assomigliare a quello che Gesù intrattiene col Padre. «Appena la voce cessò, restò Gesù solo». Quando entri nella nube del mistero di Dio, che ti chiede di passare per la morte prima di accedere alla vita, sei solo, e seguire Cristo può sembrare una follia, perché gli occhi sono ancora incapaci di vedere dentro il fallimento umano la gloria divina. È in questo spazio di solitudine che decidiamo se compiere la volontà del Padre fino alla fine, mentre l’istinto di sopravvivenza ci indurrebbe a fermarci. Per scegliere se aderire al progetto divino, che spesso non corrisponde all’aspettativa dell’uomo, occorre far silenzio. Ecco perché i discepoli «non riferirono a nessuno» l’accaduto. Non è automatico, neanche per un credente, accettare la volontà di Dio quando essa implica la sofferenza. In quei casi il sì del fedele è generato in un lungo silenzio interrotto solo dal tuo gemito e dal respiro di Colui che è lì con te e riflette la sua luce sul tuo volto.