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Puntare al cuore

È la dinamica del peccato, che accentua un bisogno marginale facendolo apparire come prioritario e inducendo la persona a volerlo soddisfare a tutti i costi. Chi l’ha detto che per sentirmi più in alto devo usare l’altro come piedistallo? Perché agire d’impeto senza prima aver verificato se un intervento costruisce o demolisce? L’aspetto più difficile da sradicare è la presunzione di ritenersi idonei ad intervenire nella vita del prossimo per stigmatizzare o correggere, mentre si è colpevoli degli stessi difetti o anche di più gravi! La psicologia dice che si condanna nell’altro ciò che non si accetta di se stessi; la vita diventa così una grande menzogna, una recita senza fine, che può perpetuarsi fino alla fine. Quanta gente giunge alla fine dei suoi giorni senza mai aver saputo o voluto vedere una verità in fondo elementare, ossia che il problema non stava nell’altro ma dentro di sé! Genitori che non accettano la scelta dei figli di consacrarsi e che interrompono la relazione mutilando in tal modo il proprio cuore; persone vittime dell’invidia che passano la vita a screditare qualcuno senza mai trovare pace; individui che si sentono in diritto di entrare nelle vicende altrui con invadenza offrendo rimedi peggiori della malattia e così via. Se è vero che ognuno esercita una qualche responsabilità verso il prossimo in qualità di genitore, capo o educatore, chi ha il compito di guidare non può essere cieco, deve avere una visione chiara dei valori che promuovono la vita propria e altrui e che conducono al sommo bene, deve essere «ben preparato». Diventare discepoli di Cristo è il modo per acquisire tale abilità e Gesù è uno dei pochi maestri che non lesina il suo insegnamento, anzi desidera la piena identificazione del seguace con sé, pronto a tirare fuori dal fosso la guida e l’apprendista ciechi che vi siano caduti. Perché tutta questa premura del Signore per liberarci dall’ipocrisia e dal rischio di disorientare la vita altrui? Il desiderio del Padre è che il figlio «produca un frutto buono», perché sa che l’uomo ha bisogno di generare vita e amore per essere nella gioia e percepire che la propria esistenza resiste alla sfida del tempo che passa e si estende oltre la scena di questo mondo. La bontà del frutto dipende dalla bontà dell’albero come il fare dall’essere, mentre oggi si pone seriamente a tutti i livelli il problema dell’indebolimento dell’identità a motivo di una grave incoerenza tra l’agire e il proprio stato di vita. Se un politico è un disastro nella vita privata, come può occuparsi del bene comune? Due genitori separati come possono trasmettere ai figli l’idea dell’amore indissolubile? Per prevenire o curare la corruzione dell’identità dell’uomo occorre ripartire dal «buon tesoro del suo cuore», puntare al cuore e non all’immagine, educare fin da bambini ad esaminare se stessi e dare un nome ai pensieri nascosti, a saperne immaginare i possibili sviluppi e le ricadute sugli altri. Se necessario, occorre sradicare e abbattere l’albero che noi siamo per piantarlo di nuovo, cambiare terreno e adottare qualsiasi altro provvedimento, ma mai lasciare ‘impunito’ il male che vuole annidarsi dentro. Una persona è matura e produce frutti buoni non se ha superato tutte le imperfezioni e miserie, ma se sa leggere i movimenti del proprio cuore e chiedere aiuto quando non riesce da sola a correggersi. L’umiltà è l’antidoto contro l’ipocrisia e la sterilità; la parola dell’umile muove i cuori perché non sovrabbonda di verbosità ma è generata nel silenzio e invita al primato dell’interiorità e dell’essere sull’esteriorità e il fare.