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Giovani «senza fede»? No, c’è una sete nuova

Giovani e fede

Sul primo versante è utile ricordare che la giovinezza è, in realtà, soltanto un momento di un percorso più articolato e complesso. Ha, quindi, le caratteristiche, i pregi e i difetti di quel singolo momento. Non è l’intero. E non tutto può essere dato o richiesto in quel momento. Alcune cose potranno maturare, altre scomparire. Ci potrà stare anche qualche cambiamento di percorso e qualche errore. E la guida di persone più mature ed esperte sarà sempre di grande utilità.
Sul secondo versante, anche la fede rischia di non essere ben compresa se staccata dal suo contesto. La fede è un modo di interpretare e vivere l’intera esistenza. Ed è così legata ai gesti, alle parole e alle scelte della vita da essere difficilmente riconoscibile senza di essi. Così non è mai facile capire se la fede c’è o non c’è. A volte compare dove meno ce lo si aspetti. Perché è molto più vicina a un modo di vivere che a un semplice concetto o a un’asettica definizione. Anche per questo non è mai facile comprendere i giovani e la loro fede. Nessuna delle due realtà, infatti, è statica e se a volte possono apparire come frammenti, lo sono, ma di un intero. Perciò, è tanto più facile comprenderle quanto meno le si staccano dall’intero.
È possibile, allora, che se la fede viene interpretata solo come una pratica religiosa o come un assenso intellettuale, i giovani appaiano irrimediabilmente lontani da essa. Al contrario, se quegli stessi giovani sono confrontati con gli itinerari di fede descritti nella Bibbia e spesso presenti nella tradizione cristiana, appaiono assai meno lontani da un autentico cammino di fede.
È quanto si può intuire, per esempio, leggendo le interviste realizzate dall’Istituto Toniolo all’interno dell’indagine su «Giovani e fede in Italia». Un giovane studente di ventuno anni, di Roma, mentre dice «non frequento la chiesa» e «sono dell’opinione che se non vedo non credo», allo stesso tempo apprezza «la speranza che può dare la fede e che può dare Dio» e confida: «Facendo una preghiera riesco a sentirmi meglio; questa è una cosa bella». Un giovane ragioniere di ventisette anni, disoccupato, abitante in un piccolo centro del Nord, si definisce agnostico, ma mentre critica coloro che «credono, ma non vanno in chiesa», ritiene anche che «il vero regno di Dio sia dentro l’uomo», perché «la religione è una cosa interiore».
Questi due giovani manifestano una grave mancanza di fede o stanno cercando una fede più interiore e autentica? Una giovane ventottenne che risiede in un piccolo centro della Romagna mentre dice «non credo nella fede intesa come fede cattolica, quindi non credo in un Signore nel Paradiso, in tutto quello che ci insegnano a catechismo e giù di lì», e mentre si lamenta delle pratiche ecclesiastiche – «Non sono più andata in chiesa se non per il matrimonio della mia migliore amica che si è sposata l’anno scorso e ti posso garantire che è stato un sacrificio stare lì dentro un’ora e mezza a sentire delle “ciofeche”, perché io non ci credevo; ci sono andata solo perché voglio molto bene a lei e credo che la loro unione sarebbe stata ugualmente valida anche se l’avessero fatta in Comune» –, allo stesso tempo ritiene che la fede sia qualcosa che assomiglia a quel delicato rapporto che ha con la sua mamma, morta quando lei aveva solo venti mesi: «Come io trovo conforto in quella che è l’anima della mia mamma, quando ne ho bisogno, molto probabilmente altre persone credono in Dio perché dà loro conforto, perché si sentono aiutate; per gli stessi motivi per i quali io, quando ho bisogno, mi giro e dico “mamma cosa faccio?”, loro si girano e dicono “Signore adesso cosa faccio?”; credo che sia la stessa identica domanda, cambia solo la persona alla quale è indirizzata la richiesta di aiuto». Anche qui: è mancanza di fede o desiderio di una fede personale, profonda e autentica? Si potrebbe proseguire con la presentazione delle interviste nelle quali i giovani dicono di sperimentare uno stretto collegamento tra la fede e la speranza; cercare in Dio il sostegno, la serenità e il conforto necessari per affrontare le vicende – non di rado sofferte e dolorose – della loro vita; leggere i Vangeli per ritrovarvi l’insegnamento e il volto di Gesù; avere fiducia nei miracoli; riconoscere la gioia e la bellezza di una fede autentica.
Tra tutti, si può citare Francesca, ventenne, studentessa della facoltà di Scienze della comunicazione. Racconta così alcuni passaggi importanti della sua vita: «Un giorno muore il fratello di una mia amica, un bambino di dieci anni. Da lì ho deciso di fare della mia vita qualcosa di straordinario. Ho deciso di avvicinarmi alle persone. […] Cerco di stare accanto agli altri.
Cerco di amare un po’ di più e, prima di tutto, prima di me stessa vedo l’altro. Secondo me l’altro è una missione meravigliosa. Secondo me l’altro è una scoperta meravigliosa. Penso che ognuno abbia croci e momenti di sconforto. Tutta la bellezza, però, sta nel trasformare questi momenti e nell’arricchire la vita degli altri. Nel vedere la loro luce, quando tu ci sei. […] Questo spero di fare ogni giorno: ascoltare. […] Mi sono ripromessa che non avrei mai più fatto morire gli altri di solitudine. So cosa si prova. Lo so e, quindi, non accadrà mai che qualcuno non senta la mia presenza, mai. Perché io ci sono. Per me è una mission. Amare l’altro è una missione. È trasmettere quello che io ho dentro. Ci provo quotidianamente». Sorprendente la capacità di Francesca di trasformare una situazione di difficoltà e di dolore in un’occasione di crescita della propria disponibilità all’incontro, all’ascolto e alla dedizione. Sino ad avvertire l’esigenza di partire da qui per plasmare la propria vita. Sembra di scorgere, in lei, i tratti dei grandi fondatori cristiani che da situazioni di bisogno sono stati spesso capaci di trarre idee e progetti in grado di migliorare la vita di tutti.
Nascono allora alcune domande che sembrano accompagnare bene le nostre riflessioni sui giovani e la fede. Non è che per capire i giovani sia necessario ascoltarli di più, evitando di interpretare la loro fede alla luce di schemi formali e precostituiti? Non è che la loro educazione religiosa, anziché essere progettata come un “vaccino”, da inoculare prima possibile e una volta per sempre, debba essere pensata come un cammino progressivo da accompagnare delicatamente per tutta la vita? Non è che tendiamo ancora a pensare la fede più come una serie di pratiche e di concetti piuttosto che come un incontro personale con Gesù dal quale nasce, con consapevolezza e libertà, un modo di vivere più autentico? Non è che nella pastorale siamo ancora più impegnati a gestire spazi e a organizzare eventi e percorsi comunitari anziché favorire l’incontro personale e l’ascolto reciproco, in tutti i luoghi nei quali quotidianamente viviamo?
In realtà, avremmo tutti e facilmente a disposizione un eccellente modello di pastorale: Gesù, che era davvero un “maestro” nell’incontrare le persone e ascoltarle, per rianimare la loro libertà e la loro vita.

Claudio Stercal
Docente di Teologia all’Università Cattolica e di Teologia spirituale alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale