Paradossalmente, quello che esterniamo diventa più intimo, perché mentre lo raccontiamo lo comprendiamo meglio, mettiamo a fuoco tutti i particolari, lo facciamo più nostro e non rischiamo di dimenticarlo. Marco, per indicare tale riunione intorno a Cristo, usa il verbo dell’adunanza ecclesiale, conferendo all’incontro tra il maestro e i discepoli il carattere di una paradigmatica esperienza di Chiesa nascente, la cui «missione non finisce nel momento in cui incontra la folla, ma trova compimento e nuovo inizio nel momento in cui viene raccontata a Gesù» (Stefano Ripepi). Dunque una missione diventa autenticamente ecclesiale quando è restituita a colui in nome del quale è compiuta, che a sua volta si mostra interessato non tanto all’esecuzione della stessa, quanto alla persona dei missionari. Il vangelo infatti sottolinea sempre il primato della persona e della sua relazione con Cristo rispetto all’attesa del risultato, per quanto buona e legittima. C’è da chiedersi se una tale logica presieda anche al nostro modo di recare l’annuncio, o anche noi ci lasciamo dominare dalla mondana ansia da prestazione nel campo della evangelizzazione. L’altro verbo che Marco usa per dire che i discepoli «riferirono tutto quello che avevano fatto», è proprio quello della evangelizzazione. Forse Dio ha bisogno di essere ‘evangelizzato’? Sì, nel senso che quando i missionari recano nel mondo la lieta notizia, il cuore di Dio si rallegra, essendo realmente coinvolto e partecipe nell’impegno degli uomini a servizio del Regno. Non dunque un Dio impassibile che muove le fila della Chiesa dal suo trono inaccessibile, ma teneramente vicino al cammino concreto dei suoi, capace di intuire il loro bisogno di rigenerarsi per evitare di vivere tutto senza la percezione della bellezza di ciò che fanno. Lo sguardo di Gesù pertanto va ben oltre quello che gli apostoli raccontano. Egli sa perfettamente quanto anche la gioia può essere faticosa, cosa significa essere tutti protesi verso i bisogni dell’altro tanto da dimenticarsi dei propri, anche di quelli primari, come mangiare. Da qui la sollecitudine per i discepoli, che si avviano «verso un luogo deserto, in disparte», ma anche la necessità per Gesù: «egli deve fare discernimento sulla sua missione, soprattutto ora che Giovanni il Battista, con la morte violenta subita, diventa precursore anche del suo futuro» (Enzo Bianchi). Tuttavia l’agenda del missionario non è dettata da un programma studiato a tavolino, ma da uno sguardo di compassione come quello del maestro, irresistibilmente attratto dal povero che tende la mano. «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro», che addirittura avevano preceduto i missionari all’altra riva, mossi da un bisogno che li aveva resi intraprendenti. L’audacia dei bisognosi e lo sguardo dell’appassionato si incontrano. Il vangelo racconta dunque di passioni forti, di ricerche reciproche, di perdite e ritrovamenti. Sembra di rivedere la dinamica del desiderio dell’amato e dell’amata del Cantico dei Cantici, in cui la momentanea distanza non fa altro che accrescere il desiderio della presenza dell’altro. È necessario talvolta che Gesù si allontani dal nostro sguardo perché capiamo se è veramente Lui l’amato del nostro cuore e facciamo chiarezza su cosa cerchiamo davvero nella vita. Certo, la pericope successiva della moltiplicazione dei pani aiuterà a comprendere se Gesù è cercato per il desiderio di stabilire una relazione con Lui o per il cibo che Egli dà, ma intanto è decisivo imparare a dimorare nell’intimità divina, verificare se il cuore riposa volentieri in Cristo. Al di là della intenzione che muove il cuore degli uomini, Gesù coglie la loro oggettiva realtà di «pecore che non hanno pastore» perché, come denunciarono i profeti, le guide del popolo avevano pascolato se stesse. È questa la verità dell’uomo del nostro tempo, cui Gesù risponde con la forza del suo insegnamento, a riprova del fatto che non gli stratagemmi umani, ma attingere alla sapienza divina è l’unica via per la risoluzione dei problemi del mondo.